La radura dimenticata. Breve viaggio nella violenza

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

“Qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano,

nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti,

sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente

che gli venga fatto del bene e non del male.

È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano.”

Simone Weil, “La persona e il sacro”

Non è tanto l’intensità della violenza – è sempre esistita, dalla comparsa del primo uomo sulla Terra – quanto l’assuefazione ad essa, ad allarmare chi ancora si inquieta;  per cui è lecito dire che siamo davanti a una recrudescenza, a un aumento della violenza (nei giovani soprattutto), a un’era di rinnovata barbarie.

All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, Pasolini registrava l’assuefazione a una mentalità criminale e criminaloide, lucidamente descritta e analizzata in quei lungimiranti saggi che gli hanno valso l’epiteto di profeta, raccolti negli “Scritti corsari” e nelle “Lettere luterane”.

A monte della violenza vi sono la “forza paralizzata”, “il gesto privo di moto” (T. S. Eliot, “Gli uomini vuoti”), la mancanza di comunicazione autentica, la non condivisione dei sentimenti: chiari sintomi di quella malattia morale che consiste nella debolezza della volontà, che si potrebbe chiamare “morte del cuore”. L’atteggiamento dell’assuefatto è quello dell’accidioso. Passare per ‘normali’ comportamenti criminali che avvengono ogni giorno con frequenza impressionante è fare un uso improprio dell’aggettivo ‘normale’. Passare per normalitario un atteggiamento patologico significa alterarlo, e significa, anche, favorire certe sottili modificazioni percettive. Per fortuna non siamo tutti uguali, a ciascuno la propria sensibilità che, si sa, se molto intensa l’impatto col mondo fa male.

La violenza non è ancora il male

La violenza è nel DNA dell’uomo, a ben guardare ogni creatura è violenta. E la Vita lo è naturalmente, oltre che crudele. Per Antonin  Artaud crudeltà non è altro che “appetito di vita, rigore cosmico, necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere.”

Ma la violenza non è ancora il male. Male è mancanza di speranza: ignavia.

La tecnologia, che nasce in ambito bellico, è sicuramente alleata della violenza, e contribuisce ad aumentarla. Non occorre l’aggiunta di un microchip sottocutaneo per aumentare il coefficiente di violenza nel DNA umano.

Per Eliot, avere il cuore morto, non avere cuore, constatare la ‘morte nell’anima’ è peggio che essere delle anime violente.  Così è nella poesia del 1925 “The Hollow Men”, il cui titolo nella traduzione italiana è “Gli uomini vuoti”. Ecco, Kurtz  (il turpe personaggio del mercante di avorio in “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad), che compare in epigrafe alla poesia, è un’anima violenta, ma gli ‘indifferenti’ di ieri e di oggi (tra cui i negazionisti della realtà dei lager) sono peggio.

Al di qua della Ragione (quanti crimini sono stati commessi in suo nome…) c’è la coscienza e lì deve rimanere. Chiedono non solo giustizia, ma anche di essere ricordati e amati da tutti, coloro che hanno patito ‘troppa realtà’, tra cui, recentemente, il nostro ambasciatore Luca Attanasio, trucidato  lo scorso 24 febbraio in Congo. E ‘l’agnello’ Jim, il giovane reporter statunitense laureato in storia dell’arte, decapitato dai terroristi islamici nell’agosto del 2014. Chi non possiede solo una memoria a breve termine se lo ricorderà di certo. Era un torrido week end d’inizio agosto, le spiagge affollate, il giornale spiegato sulle ginocchia dei bagnati sotto gli ombrelloni, a caratteri cubitali le notizie atroci in prima pagina. Lo stesso cielo azzurro, smagliante, indifferente, in altro luogo, il deserto caro ai Padri del deserto, e ‘l’agnello’ Jim, e quella luce fantastica, solenne, accecante, poi il riverbero della lama, ‘rumor di metallo’.

Lo spazio obbligato del relativismo è un recinto che si restringe sempre più fino a divenire una trappola per topi. E si è coscienti, oh, sì,… ma coscienti di nulla. Ci siamo ritrovati in una selva oscura e vuota, pozzo senza fondo, e nulla vi è all’infuori di questa selva. Eppure una radura in cui stare al sicuro dovrà pure esserci. Ma non si scorge assolutamente nulla e non giunge alcun rintocco di campana che possa recare sollievo. Errare nella selva è anche attraversare la linea (interminabile) del nichilismo. Non ne siamo affatto usciti. E il clima del paese del relativismo è irrespirabile, asfissiante, spaventoso. Sono queste “le magnifiche sorti e progressive”? Essere esistenze prive di sentimento e considerare nulla la vita altrui?

L’articolo di Pasolini sul “Corriere della Sera”

Sarebbe utile rileggere, per alcuni si tratta di leggere, l’articolo di Pasolini uscito il primo marzo 1975 sul “Corriere della Sera”, intitolato “Non avere paura di avere un cuore” (ora in “Scritti corsari”), che potremmo considerare l’antefatto di questo breve excursus nel pianeta della violenza. In esso Pasolini, da acuto osservatore della natura umana (come lo è ogni scrittore), registrava la mutazione antropologica e denunciava come la violenza sui corpi fosse diventata il dato più macroscopico della nuova epoca umana, che di umano, purtroppo, ha ben poco. Come ben si adatta alla realtà di oggi quell’analisi dolorosa e appassionata. Ma Pasolini non è profeta, poiché la realtà descritta non riguardava un futuro distopico, bensì il presente di allora: gli anni del ‘boom’ che vedevano Pasolini impegnato dalla poesia al romanzo, alla saggistica, al cinema; vero intellettuale a 360 gradi.

In questo pozzo senza fondo, raspiamo come fa il topo, per afferrare brandelli di luce, autentiche pepite d’oro in grado d’infondere speranza.

Basterebbe che un piccolo spazio sfuggisse al controllo, e da lì ripartire. Basterebbe l’integrità per non soggiacere alla violenza psicologica della nuova forma di potere, violentemente totalizzante. Basterebbe l’integrità per non sacrificare la propria energia morale e intellettuale. Chiudere gli occhi davanti ai soprusi è sempre acconsentire. Essere anime sordide o anime morte, questo il problema. Ma forse, adesso, coincidono entrambe le situazioni esistenziali. Credo che questa sia la più violenta fra tutte le epoche.

L’indifferenza verso gli altri, il mondo e se stessi è espressa compiutamente nel personaggio di Stavrogin (Fedor Dostoevskij, “I demoni”) che afferma: “Non conosco e non sento dentro di me né il male né il bene, non solo ho perso il senso, ma so che il male e il bene in realtà non esistono nemmeno (e ciò mi fa piacere), e non sono altro che pregiudizi.”

Ciò che è reale non sempre è razionale. L’esperienza smentisce quasi sempre la fredda astrazione hegeliana. Fino a che punto possa spingersi la Ragione non frenata dal cuore, spinta all’estremo, oltre l’estremo? Questo ha indagato Pasolini nell’ultimo suo film, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. È a quel punto che il male si mostra nella sua banalità, ordinarietà, sobrietà.

Ma per giungere a una simile modificazione antropologica occorre togliere di mezzo, o indebolire, l’intelligenza emotiva, cosa che riesce assai bene alla tecnologia, dispiegata nel linguaggio dei social, dei video-games e, perché no, di qualsiasi oggetto transitante nei media, sia anche un semplice esercizio sotto forma di test da somministrare agli studenti della ‘buona scuola’. Per inculcare nuovi stili di vita e abiti mentali, al passo coi tempi, occorre mettere fuori campo il sentimento d’empatia, che sostanzia l’arte (ogni arte) e la poesia, dichiarate inutili da ogni ideologia totalitaria.

E se un giorno funesto l’uomo non fosse più in grado di sentirlo – il cuore – di commuoversi? Che cosa resterebbe dell’uomo? Temo sia l’ignavia a rimanere, il deserto del nulla. Se quel giorno funesto dovesse arrivare, quale salvezza potrebbe il genere umano auspicarsi?

“Basta!…” esclama qualcuno. “Via, via, via, disse l’uccello: il genere umano / Non può sopportare troppa realtà.” (T. S. Eliot,

“Burt Norton, Quattro quartetti”).

Il sempreverde della vicinanza e dell’amore

Qualcuno vorrebbe ritornare a casa. Ma ‘dove’ ritornare, se è il mondo ad essersene andato? Quasi nulla più è famigliare qui. “E gli astuti animali certo si accorgono / che non diamo affidamento, non siamo di casa, / nel mondo interpretato.” (R. M. Rilke, “Prima Elegia”). Se l’affettività e la tenerezza paiono azzerate nel deserto in cui viviamo, unici depositari di questi beni, che una volta furono anche dell’uomo, sono gli animali. Ecco la radura dimenticata, un tempo abitata dall’uomo. È lì che ancora fiorisce il sempreverde della partecipazione, della vicinanza, solidarietà, fratellanza, amore. Fuori della radura il delfino salva l’uomo – è nella sua natura e sempre lo farà – ma l’uomo per ringraziamento lo pugnala. È accaduto, ahimè, qualche anno fa, non nei nostri mari, bensì lontano, ma qualcuno l’ha fatto. Gli animali ancora si fiutano e si riconoscono. Uniche figure di vitalità possibile, di tenerezza: il gatto che insegna a volare al cucciolo di gabbiano – nella meravigliosa favola di Sepulveda – la lupa che alleva il cucciolo non suo cui il cacciatore ha ucciso la madre. Ecco la Compassione, la Fratellanza in cui sperare.

Dott. Gustavo Cioppa

Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: http://www.ilticino.it/2021/03/10/la-radura-dimenticata-breve-viaggio-nella-violenza/

Il 2 giugno, giorno di festa, giorno fausto- 02/06/2025 – WikiMilano

Nel giorno del 2 giugno si celebra la Festa della Repubblica, onde ricordare la nascita della Repubblica italiana, il 2 giugno 1946, a seguito di un fondamentale referendum istituzionale. Occorre però precisare in che senso debba intendersi l’accezione “festa”. Essa infatti non va certo interpretata come sinonimo di “sagra” o di “festività” nel senso comune e gergale del significato – tale precisazione è importante, poiché oggi si tende a equivocare il significato istituzionale e quasi “sacro” di una festività, ancorché laica, con la nozione di “festa” gergalmente intesa -. Con tale accezione va piuttosto ad intendersi l’aggettivo latino “faustus”, riconnesso a “dies”, da cui “dies faustus”, ossia, letteralmente, “giorno fortunato”. Nell’accezione romanistica, tuttavia, per “fortuna” si indica non già la “fortuna”, siccome oggi comunemente intesa, ma il “destino”, la “sorte”, la “moira” greca, ossia, letteralmente, dal greco “meros”, “parte”, “colei che fa le parti”. Così, probabilmente, un imperscrutabile destino aveva programmato che il 2 giugno 1946 sarebbe sorta la Repubblica italiana. La Festa della Repubblica, nella predetta accezione, è una ricorrenza che deve essere vissuta tutti i giorni, per ricordare come immanenti e sempre attuali i valori sui quali si è fondata, come si fonda, il nostro Stato. Il riferimento è ai principi fondamentali, cui sono dedicati i primi dodici articoli della Costituzione. Così, centrali nel funzionamento del sistema costituzionale sono il diritto-dovere al lavoro, il principio di solidarietà umana e quello di uguaglianza. La Costituzione, si è detto, rappresenta una perfetta sintesi tra norme dedicate alle libertà e ai diritti fondamentali della persona e norme dedicate al funzionamento dello Stato, in ciò rappresentando un perfetto modello di Costituzione “lunga”, ossia non esclusivamente limitata alla parte relativa allo Stato, quale Stato-apparato, ma ricca di fondamentali principi relativi all’ontologia dello Stato-comunità. La comunità dunque al centro del disegno costituzionale, siccome bene espresso nella formulazione di cui all’articolo 2, ai sensi del quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La Repubblica è e deve essere, letteralmente, “res pubblica”, ossia “cosa pubblica”, “affare di tutti”. Le tematiche della vita pubblica non devono allora essere considerate qualcosa di alieno dalla nostra sfera personale e giuridica, quanto piuttosto parti imprescindibili e fondanti della medesima, come la giornata del 2 giugno ci vuole ricordare. La Costituzione, al tempo stesso, è un pezzo di carta, non una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé (Calamandrei). Ecco dunque che solo la coscienza collettiva può far procedere l’ordinamento, l’ordinamento giuridico e sociale, di cui tutti facciamo parte e che tutti siamo chiamati ad arricchire con i nostri contributi. Ecco dunque il significato profondo del legame sociale: un fondamentale atto di civiltà, che, nella sua semplicità, reca il significato di una storia illustre, fatta di notevoli sacrifici, per l’affermazione dei diritti costituzionali, i quali non devono rimanere sulla carta, ma devono piuttosto essere inverati nelle nostre vite. Il tempo in cui viviamo è certamente, purtroppo, caratterizzato dalla violenza e da un forte atomismo sociale. La violenza, etimologicamente “violazione”, consiste appunto nella violazione di fondamentali norme di comportamento e lede gravemente l’amore per la legalità e quello per la comunità. E infatti, l’amore per la comunità è anche amore per la legalità, e viceversa, secondo una primaria relazione ermeneutica biunivoca, che vede la legge quale portato derivativo di un senso di etica dedizione per il popolo, in tal senso astringendosi in uno il binomio “lavoro”, inteso come “impegno” e “sacrificio” e “sovranità popolare” (artt. 1 e 4 Cost.). Solo l’amore, per la comunità e la legalità, con il suo carattere immanente, che trascende la storia, può consentire il superamento delle criticità del tempo attuale, secondo l’antico brocardo “amor omnia vincit”.

Primo maggio: non si può morire di lavoro – 01/05/2025 – ilticino.it

Il primo maggio, festa dei lavoratori, nasce da una fondamentale esigenza di giustizia e di equità, nei rapporti sociali e lavorativi. La sua origine storica non si limita al singolo fatto generativo, ossia gli scontri avvenuti a Chicago nel 1886 per la richiesta, avanzata da un gruppo di lavoratori, della giornata lavorativa di otto ore, ma attiene a una più generale petizione di giustizia sociale e di proporzionalità tra le prestazioni nel rapporto di lavoro. Quest’ultimo infatti non è solo un contratto di diritto privato, traducendosi piuttosto in un rapporto giuridico in cui non vengono in rilievo esclusivamente obbligazioni in termini di reciprocità delle prestazioni, secondo il tradizionale schema sinallagmatico. Nel contratto di lavoro emergono infatti in tutta la propria autoevidenza doveri di diritto pubblico, sanciti sul piano costituzionale. Ecco allora che le richieste di giustizia, in termini di giustizia distributiva, proporzionale e di riparto, intese dai lavoratori, lungi dal costituire “quesiti”(dal verbo latino “quaero”, ossia “chiedere per sapere”), si traducono, come si sono tradotte, in “petizioni” e “pretese”(dal verbo latino “peto”, ossia “chiedere per ottenere”). Pretese peraltro giuridicamente ed eticamente fondate, stante il criterio dell’equità (art. 1374 c.c.), criterio che regola tutto l’intero sistema delle obbligazioni e dei contratti, nemmeno solo di diritto privato in senso stretto, e che, lungi dal costituire elemento residuale, rappresenta piuttosto stigma e pietra angolare dell’intero ordinamento. Pretesa di maggiore giustizia sociale dunque, pretesa giuridicamente fondata e doverosa, che tuttavia deve rapportarsi con una non ancora sua piena attuazione sul piano pratico. Si pensi al tema del rapporto tra salario, stipendio o entrate da lavoro autonomo e costo della vita, ove un’inflazione che genera ansia e un costo della vita in continua ascesa riducono il nucleo dei diritti fondamentali dell’individuo (non già del mero lavoratore). In tutto ciò, la norma costituzionale (art. 36 Cost.) secondo cui il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del proprio lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Vengono dunque ivi in rilievo concetti fondanti della nostra storia costituzionale, come l’adeguatezza della retribuzione ed essa non solo in relazione all’individuale persona del lavoratore, ma anche in relazione alla famiglia di questi, secondo la concezione solidaristica di cui all’articolo 2 della Costituzione medesima. Il giudizio di sufficiente e quello di adeguatezza richiamano allora quello di proporzionalità e, come in un circolo ermeneutico caratterizzato da un eterno ritorno, il principio di equità. L’equità non si traduce solo nell’attuazione in sede contrattuale dei principi di correttezza e buona fede. Essa si manifesta piuttosto quale essenziale e fondamentale modo d’essere dell’ordinamento, di quell’Essere, di heideggeriana memoria, di cui l’ordinamento giuridico e sociale rappresenta la traduzione. Questa equità nei rapporti lavorativi e sociali non può peraltro essere semplicemente enunciata, dovendo piuttosto trovare puntuale e concreta attuazione. Così, da un lato il mancato adeguamento di non pochi contratti collettivi di vari comparti, pubblici e privati, alle criticità rappresentate dal momento storico, dall’altro la grave piaga del caporalato e degli infortuni, spesso mortali, sul lavoro, rappresentano uno sconfessamento pratico del predetto principio. Le statistiche recano infatti dati poco rassicuranti e ogni fatto di caporalato rappresenta un oltraggio alla dignità umana, come ogni infortunio sul lavoro rappresenta non solo un lutto per gli affetti della persona offesa, ma anche una ferita per la società civile tutta. Non può allora più tollerarsi l’indebita logica, id est vera e propria costrizione e pressione morale, del dover accettare condizioni di lavoro inique, senza garanzie per la propria incolumità, con un monte ore tale da annichilire totalmente lo spazio vitale della persona del lavoratore. Il grido di dolore levato da chi presta la propria attività lavorativa in predette e similari condizioni non può allora rimanere inascoltato, a fronte del carattere permanente e abituale di tali fatti ingiusti. La giustizia sociale allora rappresenta il motivo d’essere e la causa funzionale della festività del primo maggio, festa del lavoro, ma di un lavoro che deve essere giusto ed equo, secondo i canoni della legalità, senza negazione della fondamentale tutela rappresentata dal contratto di lavoro dietro simulati rapporti a partita iva, senza ripetizione protratta di contratti a tempo determinato, volta a sottrarre dalla stipula di un contratto a tempo indeterminato, senza che il documento contrattuale venga ridotto a una mera lettera d’intenti, solo per citare la casistica più frequente. Per rendere effettiva la legalità, occorre sentirla, occorre percepirla, occorre viverla. Per fare propria questa dimensione etica e giuridica occorrono però responsabilità e autoresponsabilita, occorrono onestà e rettitudine, le quali possono essere apprese solo attraverso un’educazione non solo esterna ed impartita, ma in primo luogo attraverso lo studio della propria interiorità e di quella legge morale scritta nel cuore degli esseri umani, che tutti siamo chiamati ad apprendere e fare nostra. Il primo maggio possa allora tradursi in ciò: in un’occasione di riflessione pratica, di decisa presa di posizione contro le ingiustizie e nel coraggio di denunciarle, nella solidarietà umana che sempre deve caratterizzare le condotte umane e che si invera, come deve inverarsi, nei principi di equità e proporzionalità.

Papa Francesco: l’ultimo profeta della solidarietà in un tempo buio – 21/04/2025 – Osservatorio Metropolitano di Milano

Oggi, 21 aprile 2025, è morto Papa Francesco, all’età di 88 anni. Il dolore nella comunità è grande, perché sembra essersi spenta la luce della speranza, quell’anelito di solidarietà, altruismo e bontà umana allo stato puro, che, in un momento storico particolarmente complesso, ha costituito un barlume di speranza, soprattutto nella prospettiva della cessazione delle ostilità in varie parti del mondo. Il messaggio comunicativo più importante di Papa Francesco è stato infatti probabilmente questo: la chiamata verso noi tutti a farci manifestazione di solidarietà e altruismo nei rapporti umani, l’impegno cristiano da vivere non solo e non tanto sul piano teorico, quanto piuttosto su quello pratico, dimostrandosi cristiani nel concreto.

Papa Francesco è certamente stato un Pontefice dalla grande umanità, che ha più volte riaffermato l’importanza centrale del principio di uguaglianza e il dovere della comunità cristiana di allargarsi verso l’inclusione di nuove persone, di nuove categorie, per allargare spiritualmente e concretamente la visione dell’essere umano singolo e, di conseguenza, all’intera comunione umana e mostrandosi particolarmente, e giustamente, duro sulla piaga della pedofilia. Papa Francesco probabilmente mutua questo suo genuino, sincero e autentico modo d’essere dalle sue origini, nato e cresciuto nelle “favelas” argentine, in condizione di estrema povertà. Di qui la scelta del nome “Francesco”, da San Francesco, Santo dalla grande umiltà e umanità, solidale con i poveri, spogliatosi di ogni ricchezza, perché mosso da una mai cedevole fede e chiamata all’aiuto verso il prossimo.

Chi è il “prossimo”? È interessante notare come questa nozione non sia esclusivamente teologica. Essa infatti è anche una nozione giuridica, perché il prossimo, il vicino, nel diritto amministrativo, ha interesse ad impugnare il provvedimento e l’ordinamento gli riconosce dunque una piena tutela giuridica, prossimo è l’amico stretto o il familiare della persona offesa da un reato o da un illecito civile, cui spetta il risarcimento del danno. Prossimi sono però, soprattutto, i consociati dell’unico Stato-comunità, verso cui dobbiamo porre in essere quegli inderogabili doveri di solidarietà umana di cui fa parola l’articolo 2 della Costituzione.

Ecco allora che potenti risuonano le parole del Cristo: “ciò che avrete fatto a uno dei miei fratelli, lo avrete fatto a me”. Cristo insisteva inoltre su questo: che non è sufficiente conoscere le leggi, come fanno gli scribi e i farisei, se non si mostra umanità e solidarietà verso i propri fratelli e se quelle leggi non vengono applicate con i medesimi sentimenti. Non è un caso se più volte Papa Francesco, nelle proprie omelie, ha ripreso la parabola degli scribi e dei farisei, puntualizzando che per essere dei buoni fedeli, ma anche dei buoni cittadini, è doveroso in primo luogo dimostrare la cristianità e cioè quell’etica universale di cui tutti siamo chiamati a costituire manifestazione e a darne costante testimonianza.

Papa Francesco si è inoltre sempre mostrato estremamente aperto al dialogo e al confronto con chi è di vedute di vita diverse da quelle cristiane. Il Papa allora considera questo: che talvolta gli atei si dimostrano più cristiani di cristiani che lo sono solo a parole ma non nei fatti, pur andando in Chiesa tutte le domeniche e adoperandosi in opere di bene, talvolta solo apparenti. Il Papa non ha poi mancato di aprire un ampio e durevole dialogo con pensatori atei del recente passato, evidenziando acutamente come in realtà comune è spesso il linguaggio parlato da atei e credenti, più di quanto non si pensi. E infatti, come è stato bene evidenziato da alcuni studiosi di filosofia, il pensiero di Nietzsche, per la propria struttura verticale e per la volontà comunque di trovare una soluzione al “nulla”, si presenta come intrinsecamente cristiano. Ecco allora che l’apertura verso chi la pensa diversamente da noi, la solidarietà e l’aiuto verso il prossimo, il grande e universale principio di umanità e la tematica di un’etica universale laica e credente al tempo stesso inferiscono verso il generale messaggio comunicativo di una Pace ed Etica Universali: verso quei messaggi di uguaglianza e solidarietà confluiti nelle più nobili e celebri dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo.

Papa Francesco è allora stato soprattutto questo, un “angelo”, nel significato greco di “messaggero”. Un messaggero di pace e di “concordia omnium”. E ora, dopo la sua recente scomparsa, cosa ne sarà dei messaggi comunicativi che Egli ha tramandato al mondo? La risposta sta nella nostra, individuale e comune, coscienza umana e sociale di attuarli. Il Pontefice non ha infatti mancato di rimarcare il ruolo centrale della scelta, siccome sintesi decisionale e attuativa dei postulati della Ragione e della Volontà: e ciò, orientando le condotte umane verso il perseguimento del bene comune, soprattutto per offrire alle nuove generazioni un mondo migliore, non dimentichi dell’amore verso i bambini e gli indifesi. È nostro compito ora dimostrarci degni ascoltatori di quelle omelie che tanto possedevano, come possiedono, di umano, laico solidale.

Tratto da: https://www.osservatorio.milano.it/post/papa-francesco

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La forza di chi trasforma il limite in dono – 21/04/2025 – ilticino.it

Sembra che al giorno d’oggi la sensibilità umana si palesi come uno di quegli antichi verbi italiani caduti in disuso, forse perché “passata di moda”, forse perché non produttiva di utilità, in termini di tornaconto personale, in un tempo storico dove sembrano prevalere l’individualismo e l’utilitarismo in senso stretto. Non ci si avvede però che un beneficio fatto agli altri è in primo luogo un beneficio fatto a noi stessi. E infatti, dietro la massima “gli altri sono noi”, sta un universo di significati, tutti volti a condurre verso un’unica incontestabile verità: che nessuno può vincere da solo le sfide che a tutti noi la vita pone. Così, non solo è bene e doveroso farsi manifestazioni di altruismo e solidarietà, ma è anche utile. Gesti di amore, affetto e altruismo meritano certamente le persone con disabilità. Le persone con disabilità sono infatti persone di grande umanità e sensibilità, espressioni di una dolcezza superiore alla media di quella umana e che ha qualcosa di comune con la bellezza angelica. La bellezza, come ci ricorda Platone, non si misura infatti solo in bellezza estetica, ma anche e soprattutto in bellezza morale, in bontà e umanità. L’umanità a sua volta non rimane, né deve rimanere una mera formula astratta, scolpita nelle parole di autori dell’antichità, come Terenzio – “sono un essere umano e non posso non preoccuparmi di tutto ciò che è umano – o come il giurista Celso – secondo cui il diritto è l’arte del buono e dell’equo. L’umanità non si limita a ciò ma vive, come deve vivere, nei cuori degli esseri umani, quale legge morale scritta nei nostri cuori. Leggere allora di comportamenti di indifferenza o, peggio, di accanimento, verso bambini autistici o verso vittime di bullismo o, ancora, verso anziani o persone affette da patologie croniche, deve senza dubbio far destare la nostra coscienza e muoverci a riaffermare con decisione e vigore il valore della Giustizia. La giustizia non è infatti solo quella praticata nei tribunali, è anche quella posta in essere nelle relazioni sociali, umane e lavorative. Così, per essere persone giuste, occorre essere persone moralmente oneste e trasparenti, e dunque persone sensibili e umane, occorre cioè dimostrare la nostra autenticità morale, il nostro senso di umanità e dunque il nostro senso di giustizia, nonché il nostro amore per la legalità, e dunque per la comunità. Coinvolgere la nozione di legalità, lungi dal costituire un’astrazione teorica, costituisce invece il cuore della vita nella società civile, la quale decliniamo tutti i giorni, vuoi consciamente vuoi inconsciamente. Ma c’è di più: la sensibilità è espressione di legalità e la legalità costituisce manifestazione di sensibilità. È proprio così: come in un circolo ermeneutico, come in una sorta di eterno ritorno, la sensibilità, nella misura in cui viene posta in essere, rappresenta la misura del nostro senso di legalità, quale amore per la comunità e onestà morale. Del pari, è innegabile che le norme giuridiche, se lette con attenzione, racchiudono un profondo significato etico, il quale siamo chiamati a porre in essere e a scolpire nel nostro spirito. Ecco allora che dimostrare dolcezza e affetto verso una persona autistica o disabile o intervenire in sua difesa, magari affrontando da soli una decina di bulli, è non solo atto doveroso, ma atto positivo per la nostra spiritualità, poiché il bene che facciamo è bene che riceviamo e poiché dietro quella persona offesa sta l’immagine dello Stato, inteso quale Stato-comunità. Non è un caso se nel Vangelo viene detto “chi farà una cosa buona per un mio fratello, la farà a me” e se, del pari, viene punito severamente il servo infedele, chi cioè si fa forte con i deboli e debole con i forti o chi compie gesti di favore per mero tornaconto personale. Chi infatti compie ingiustizie nel poco, lo farà anche nel molto e la pena per lui sarà assai severa. Ecco allora che per non mostrarci deboli, insicuri, vigliacchi, e soprattutto per adempiere a inderogabili doveri di solidarietà (art. 2 Cost.), per mostrare a noi stessi di essere meritevoli e creature dotate di ragione, ossia di intelligenza orientata al bene, è per noi un dovere, in primo luogo impostoci dalla nostra interiorità, dalla nostra coscienza e dalla nostra legge morale, mostrare amore verso chi è meritevole di esso, perché persona più vicina alla categoria degli angeli che a quella degli esseri umani, come le persone autistiche, portatrici di handicap o di disabilità, dotate di una inarrivabile bontà e incapaci di provare sentimenti di vendetta, non perché non capaci di provare dolore, ma perché incapaci di ferire. Ecco allora che avere accanto a sé queste persone, lungi dal costituire un elemento di sfortuna, ne rappresenta piuttosto uno di arricchimento morale e di crescita di coraggio, senso etico e umanità.

Tratto da: https://www.ilticino.it/2025/04/21/la-forza-di-chi-trasforma-il-limite-in-dono/

Pasqua è solidarietà: il futuro si costruisce insieme – 19/04/2025 – ilticino.it

Pasqua non è una semplice festività, né, per chi crede, una semplice ricorrenza cristiana: è un tempo storico, un po’ come l’aoristo nella lingua greca. È un modo d’essere. È un modo di interpretare la vita e una chiave di lettura del mondo e della realtà che ci circonda. È anche la capacità di cogliere il bene e il bello che può esservi nell’esistenza e in ogni circostanza della vita. In un periodo storico ove la riflessione sembra, al pari dell’amore per la cultura, non più apprezzata, occorre ripensare all’essere umano, considerando quale può essere un’adeguata forma di linguaggio. In un mondo ove le tenebre e l’irrazionale sembrano avere preso il sopravvento, occorre riaffermare con decisione il ruolo della ragione, ragione intesa però non già quale l’illuministica “dea Ragione”, ma piuttosto quale intelligenza orientata al perseguimento del bene (S.Tommaso D’Aquino). L’essere umano è una creatura di ragione, come ci ricorda Dante: “fatti non foste a vivere come bruti ma a perseguire virtute et canoscenza”. Ecco allora il significato più profondo della razionalità umana, l’inclinazione al bene, anzi, per riprendere Platone, al Bene. Questa nobile accezione di essere umano come creatura di ragione era ben presente anche nella celebre massima di Protagora: “l’uomo (inteso come essere umano) è misura di tutte le cose”. Protagora stava a significare che è l’essere umano, con le proprie facoltà intellettuali, ad avere, solo tra gli animali, il privilegio di poter interpretare il mondo e la vita. Questa capacità di interpretazione diventerà tuttavia un limite nella filosofia di Kant, traducendosi in una visione già prospettata, secondo “occhiali” che ci forniscono una visuale solo parziale della realtà. Di lì a poco la parabola discendente della scienza, con il fallibilismo popperiano. Ma l’essere umano non è solo “scienza”, come asserivano i positivisti, ma anche “sentimento”, “emotività” e “intuizioni”, elementi fatti propri dalla grande letteratura romantica dell’800′ (in particolare si ricordi il capolavoro di Goethe, “I dolori del giovane Werther”). La storia dell’umanità probabilmente si basa su questo sempiterno dualismo: la mente da un lato, il cuore dall’altro. Così, dopo lo storico e letterario confronto dialettico tra “l’uno secolo contro l’altro armati”(Manzoni), ossia il 700′, con l’Illuminismo, e l’800′, con il Romanticismo, sembra che l’anima sia uscita dal corpo…e così i grandi dubbi del secolo scorso, rappresentati prima dall’incertezza esistenziale del “Viandante nel mare di nebbia”, poi dai dubbi scettici di Shopenhauer e da quelli nichilistici di Nietzsche, per infine pervenire a “L’Urlo” di Munch e a “Guernica” di Picasso. Ma il secolo scorso è stato anche un secolo di grandi discussioni ed elaborazioni giuridiche e scientiche, e non solo. È stato il secolo della nascita del diritto internazionale contemporaneo, con la Convenzione di Vienna sui Trattati, la Convenzione di New York sui diritti del Fanciullo, la Convenzione di Istanbul e molte altre Grandi Carte Sovranazionali.  È stato il secolo che ha visto la nascita di importanti organizzazioni internazionali, come l’ONU. Il secolo della scoperta della legge della relatività e di molte importanti normative nazionali, come la Costituzione, gli odierni codice civile e codice penale, come la legge sul divorzio e lo statuto dei lavoratori. È stato il secolo del crollo del muro di Berlino e dell’elaborazione di principi universali di uguaglianza, solidarietà e rispetto reciproco. E questo nel quale viviamo? Quale secolo vogliamo che sia? Quale forma sostanziale vogliamo conferirgli? Probabilmente la risposta è rimessa a tre elementi: volontà, ragione e scelta. I primi due formanti concettuali a monte, la terza positiva determinazione a valle. La scelta appunto, quella scelta che tanto può angisciare, perché l’una alternativa esclude l’altra (Keerkegard) e solo a posteriori si saprà quale è stata quella corretta. E tuttavia, a guidare la scelta stanno volontà e ragione, congiuntamente considerate, energie complementari che bene giustificano, se saggiamente inverate, quella celebre affermazione di Protagora di cui poco sopra si è detto. La saggezza appunto, l’intelligenza pratica e del caso concreto (Aristotele), la quale non può prescindere dall’umiltà e dell’onestà intellettuale, da quelle “humilesquae myricae” che bene danno il senso di come vada vissuta la vita: rispettando ogni forma di essa, ogni sua manifestazione. Proprio il rispetto è forse ciò che manca nell’epoca contemporanea e che allora è da riscoprire quanto prima. Il secolo in cui viviamo è stato un secolo di eventi di grande negatività: la pandemia di Covid 19, la guerra in Ucraina e quella in Palestina, oltre a grandi crisi economiche. Ecco allora che, proprio a fronte di tali criticità, occorre una risposta unita e coesa, che deve necessariamente partire dalla collettiva e comune volontà di far tornare in auge quella massima di protagoriana memoria sopra citata: l’essere umano come misura di tutte le cose. L’essere umano da intendersi tuttavia non già quale al centro dell’universo, quale nietszchiano “superuomo”, quanto piuttosto come parte di un tutto, quale sola creatura dotata di una razionalità tale da consentirgli di interpretare l’esistente e, con le proprie determinazioni positive, di cambiarlo, si spera, in meglio.

Tratto da: https://www.ilticino.it/2025/04/19/pasqua-e-solidarieta-il-futuro-si-costruisce-insieme/

La fedeltà nel lavoro e nella Costituzione – 06/04/2025 – ilticino.it e vittimedeldovere.it

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Di Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Come un organismo vivente non può proseguire nella sua vita senza che tutti i suoi organi vitali funzionino adeguatamente, così nemmeno lo Stato può preservarsi e correttamente funzionare, senza i contributi dei suoi cittadini, senza cioè che gli animi dei cittadini siano desti e pronti e maturi per contribuire al perseguimento del bene pubblico. La metafora adottata da Menenio Agrippa è perennemente attuale e bene fa comprendere cosa si intenda per “Stato-comunità”. Quella da ultimo accennata, lungi da costituire una sfocata immagine teorica, rappresenta una realtà che sperimentiamo tutti i giorni e che contribuisce alla nostra maturazione come persone. Così, un ruolo centrale in questo processo di accrescimento è rivestito dalla memoria, dalla memoria collettiva, senza la quale la stessa Carta Costituzionale avrebbe ben poco significato. Affinché non si venga  a ripresentare uno scenario ove tutto è oscurato, anche le coscienze, è fondamentale che la coscienza e la memoria tornino a parlare di sé a gran voce, facendo riecheggiare le corte della legge morale dentro di noi, facendoci cioè comprendere il senso del nostro essere autentico, il quale non può essere se non nella comunità e per la comunità. È imprescindibile allora recuperare questa prospettiva, in un contesto, non solo quello attuale, ma anche quello contemporaneo in generale, caratterizzato dalla frammentarietà e dall’individualismo. La nostra Repubblica e la nostra Costituzione su tutto si sono fondate meno però che su un approccio individualistico ed egoistico. Anzi, forte è il senso di attaccamento sociale ai valori fondanti della nostra Nazione, del nostro popolo, del nostro essere collettivo, in una parola, della nostra comunità. Uno Stato diviso, non solo è debole, ma, prima ancora, rischia un processo di spersonalizzazione e di perdita di significato dello Stato stesso. Nella Costituzione non ci sono mai diritti e doveri allo Stato puro, ma, quasi sempre, diritti-doveri…perché il diritto e il dovere parlano la stessa dialettica e costituiscono due medesime realtà complementari della stessa essenza: l’appartenenza a una comunità appunto. Su questa poetica letteraria, giuridica e morale si muovono fondamentali norme costituzionali, come l’art. 4 Cost. e l’art. 54 Cost. Nel primo articolo si consacra il lavoro come diritto e al tempo stesso dovere del cittadino. Il lavoro cioè non viene inteso, in senso riduzionista, quale strumento di sostentamento, ma, ben più profondamente, come opportunità (chance in termini civilistici) per realizzare nella sua pienezza la personalità umana di ciascuno e, al tempo stesso, quale dovere di fonte pubblicistica per il miglioramento della società in cui viviamo. Solo in tale prospettiva può giustificarsi e comprendersi il tenore letterale e concettuale dell’art. 54 della Costituzione, secondo cui “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi previsti dalla legge”. La fedeltà non rappresenta solo un elemento compositivo dell’ontologia del rapporto di lavoro dipendente, caratterizzandosi piuttosto come precetto assai più ampio, afferente ai generali doveri di buona fede e lealtà comportamentale che, come precisato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, permeano di sé l’intero ordinamento. Ecco allora che questa fedeltà, del dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne le leggi, si traduce nell’obbligazione primaria e più importante di tutte, quella che lega ciascun individuo alla collettività e che solo in tale prospettiva fa al primo assumere significato pieno. Non è un caso se questa fedeltà possiede i caratteri del sacro, al punto di essere definita sacra, in relazione al dovere di difesa, dall’art. 52 della Costituzione. Sotto tale profilo, si deve ricordare certamente chi di tale fedeltà è stato esemplare espressione, come espressione esemplare dell’adempimento del dovere lavorativo al servizio dello Stato. Il riferimento è alle “vittime del dovere”, ossia a una vastissima categoria di servitori della Repubblica, che hanno con coraggio e grande senso etico e impegno lavorativo, servito lo Stato e bene rappresentato i valori di cui esso è espressione, sino alla morte o all’invalidita’ grave. Queste persone, in altre parole, hanno posto in posizione di priorità la comunità rispetto a loro stessi, sacrificandosi per la protezione del bene comune e adempiendo lodevolmente al proprio dovere. È doveroso, necessario e fondamentale ricordare sempre queste figure di eroismo quotidiano, che rischiano di venire dimenticate dai mass media, forse più attenti ad altre tematiche. Il ruolo di queste figure è peraltro stato determinante nei momenti bui del secolo scorso, ove solo grazie alla solidarietà (art. 2 Cost.) di cui esse sono state alta manifestazione si è riusciti ad edificare la Repubblica, partendo dalle macerie lasciate da un’oscurita’ che mai più deve ritornare. Ecco allora il ruolo della memoria perenne e la menzione a fondamentali norme costituzionali, non solo l’art. 54, ma anche l’art. 11, che sancisce come l’Italia ripudi la guerra come soluzione delle controversie internazionali, viceversa ricercando la pace. La guerra appunto, un dramma che ha cagionato tante morti e tante invalidità permanenti, che mai più si spera abbia a ripetersi e che purtroppo, invece, ancora è tornata a manifestarsi in varie parti del mondo (in Ucraina ed Israele, ma non solo). Per contrastare queste forze del male è centrale allora recuperare un’autentica forma di amore verso la comunità, il che si traduce in primo luogo nella costante e doverosa riaffermazione del principio di legalità. La legalità, la legalità non solo formale ma anche e soprattutto sostanziale, si traduce infatti in primo luogo in questo: in uno sconfinato amore verso la comunità, che è in definitiva amore verso il prossimo e verso gli altri. Questo principio e questo modo di vivere la vita è il solo che utilmente può contrastare le gravi forme di violenza che lacerano i rapporti umani: la corruzione, i femminicidi, le baby gang, il bullismo. Tutti i reati si accomunano per questo: per essere “lesioni” e “violenze” ai beni giuridici su cui si fonda la vita della comunità e dunque quella dei singoli. Gli altri sono noi, ancora una volta, e solo ripercorrendo una dialettica dell’amore, della solidarietà e della legalità si potrà parlare davvero di progresso. Certamente i contributi dei ragazzi non solo saranno “lavori”, ma appunto “contributi”, perché l’auspicio è che essi divengano cittadini consapevoli del proprio ruolo, come il lavoro giammai va inteso meramente come “lavoro”, bensì come “contributo”.

(Articolo già pubblicato da Associazione Vittime del Dovere sul proprio sito istituzionale www.vittimedeldovere.it)

Tratto da:

Papa Francesco: un monito costante per la Pace, contro la guerra e l’ingiustizia – 09/03/2025 – ilticino.it

Di Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Si è voluto dare un titolo non casuale, rivolgendo un pensiero particolare a una figura dalla grande statura morale, il Pontefice Papa Francesco, le cui condizioni di salute preoccupano tutto il mondo, il mondo dei credenti, ma anche dei non credenti. Si è voluto fare questa precisazione per porre in evidenza come il senso di giustizia, l’amore per il bene della collettività, ma anche del prossimo e delle persone che incontriamo tutti i giorni costituisca una dimensione della vita etica e dell’etica pubblica che trascende da valutazioni di adesione o meno a una determinata religione. Il nome scelto dal Papa, Francesco appunto, parimenti non è stato casuale e tale scelta semantica bene esprime gli ideali di solidarietà umana, umiltà e ascolto del prossimo, che caratterizzano la persona di Papa Bergoglio. In uno scenario come quello di questi recenti anni, ove il mondo sembra aver perso la “trebisonda”, ove sembra aver perso cioè quella bussola di buon senso e di ragione fondamentale per orientare le scelte politiche ed economiche degli Stati.

Papa Francesco rappresenta una grande energia positiva capace di contrapporsi alle forze dell’oscurità che vogliono calare il loro dominio sul pianeta -il riferimento è alla guerra in Ucraina, ma anche ai numerosi conflitti armati in Siria, Palestina, Yemen, negli Stati africani, per non parlare della condizione di sostanziale schiavitù che si trovano a vivere le donne nel restaurato regime talebano in Afghanistan-. A tali inaccettabili e gravissime violenze e ingiustizie che feriscono il mondo, le sole energie capaci di contrapporsi sembrano essere rappresentate proprio dalla Fede e dalla Giustizia, nonché dall’inno alla Pace bene incarnate da Papa Bergoglio. Non è un caso l’accostamento delle nozioni di Fede e Giustizia, in contrapposizione a “violenza” e “ingiustizia”. E infatti, la dialettica parlata da coloro che vivono ispirando la propria vita (rectius esistenza) a fede e giustizia, è la medesima, proprio come bene è stato scritto dagli studiosi di importanti autori latini, Seneca e Terenzio su tutti, in relazione ai quali si è parlato di “umanesimo laico”, siccome efficacemente comprovabile dall’alto senso di umanità e di cristianità presente in una celebre affermazione terenziana: “sono un essere umano e non posso non preoccuparmi di tutto ciò che è umano”. Ma non è tutto. Anche i pensatori e i filosofi che apertamente si sono dichiarati atei, su tutti Leopardi e Nietzsche, possedevano, a loro modo, un senso di aspirazione verso la giustizia tipicamente cristiano. Proprio ciò accomuna l’ateismo e il cristianesimo, al di là delle differenze: la lotta contro l’ingiustizia. Così, il messaggio del pontificato di Papa Francesco, un messaggio di solidarietà e umanità, bene esprime questo senso di aspirazione alla giustizia che trascende le differenze di credo. Solo questa energia positiva può allora far riflettere gli esseri umani e soprattutto i Governanti sull’esigenza di accantonare le pulsioni egoistiche, per unire anziché dividere e produrre certamente effetti più positivi per tutti. Non è un caso se, nelle sue omelie, talvolta il Papa non esiti a instaurare un significato e stimolante confronto con chi, nel corso della storia, l’ha pensata diversamente. Eppure…vi è una legge naturale e, unitamente, una legge divina, scritta nel cuore di tutti gli esseri umani, che tutti siamo chiamati e tenuti ad evocare e la quale, in primo luogo in forma di coscienza, è giudice a noi stessi, al pari di Dio sommo Giudice (S.Tommaso D’Aquino,Suarez).

tratto da: “Papa Francesco: un monito costante per la Pace, contro la guerra e l’ingiustizia” – Il Ticino

Una vita senza rispetto non è degna di essere vissuta – 21/12/2024 – ilticino.it

Rispetto, tutela e valorizzazione: un climax ascendente che sempre tiene fermo il ruolo centrale della persona umana quale cuore del sistema, al centro appunto, per così dire, dell’universo, ossia
dell’ordinamento giuridico e sociale, con particolare riferimento alla dimensione della vita pubblica. Un ruolo centrale, nel sistema etico, filosofico e giuridico che valorizza l’importanza dell’espressione e manifestazione della personalità umana trova piena comprova nei principi di solidarietà, altruismo e sussidiarietà orizzontale, sanciti nelle norme costituzionali (artt. 2, 3 e 118, ultimo comma, Costituzione).
La vita privata e quella pubblica, in fondo, rappresentano entrambe due convergenti prospettive
dimensionali di una medesima realtà. Chi infatti non rispetta le regole ed è infedele nel poco, lo sarà anche nel molto: è un messaggio di carattere universale quello, biblico, della parabola del servo infedele. E allora…come come comportarsi correttamente, per sopravvivere in un mondo certamente non facile, dove sono molti coloro che vogliono farci del male e pochi coloro che possiamo davvero definire amici? Usando rispetto, tutela e valorizzazione. E allora, si potrebbe pensare…bisogna ragionare nell’ottica di porgere l’altra guancia? Non esattamente: si deve…rispettare la legge, adempiere alla propria legge morale, che ha natura non solo individuale ma anche collettiva…creare una linea di difesa, rappresentata dai valori del vivere civile e del rispetto. Il rispetto appunto: rispetto delle leggi, della persona, dell’altrui sfera personale e giuridica, ma anche di quei principi etici e giuridici che regolano i rapporti della società civile: correttezza, buona fede e leale collaborazione.
Ma…è sufficiente? No. Indispensabile è parimenti la tutela dei diritti – il libro sesto del codice civile
non a caso si intitola così – a chiudere come l’alfa e l’omega quel sistema in realtà generale, che,
partendo dalla sua genesi (la capacità giuridica), perviene al suo apice più elevato, con il sistema delle obbligazioni. Ecco una parola chiave: l’obbligazione. Obbligazione che noi abbiamo non solo nel momento in cui stipuliamo una compravendita con Tizio o una locazione con Caio, ma, più in
generale e prima di tutto, quando noi veniamo al mondo e siamo chiamati a relazionarci a un tempo con noi stessi e con l’ordinamento globalmente considerato. La tutela allora rappresenta una convinzione attiva, che si aggiunge alla mera convinzione passiva (il rispetto) e la completa. Così, la valorizzazione rappresenta l’apice di questa parabola. Tutela e valorizzazione dunque del territorio, del paesaggio, dei beni culturali…ma anche delle persone che sono protagoniste di questo territorio…valorizzazione della persona umana in primis…singolarmente e nelle forme associative in cui si esplica la sua personalità (art. 118, ultimo comma, Costituzione: lo Stato che appunto, come Stato comunità, ha questo compito). Le relazioni umane, quali forme etiche di valorizzazione dei valori (l’alliterazione è rafforzativa e rende il senso della necessità indispensabile di ravvivare ogni giorno il senso e la natura dei valori fondanti della società civile) si traducono allora non in un semplice vivere, ma in un “vivere al quadrato” e quindi in un “esistere”, in un “esserci”. Cosa diversa è infatti limitarsi a vivere, pensando ai bisogni primari ed esclusivamente in chiave egoistica, rispetto all’ ”esistere”, ossia all’esserci per gli altri, per il prossimo, come bene è testimoniato dalla distinzione, nella lingua tedesca, tra i verbi “sein” (“essere”) e “sollen” (“dover essere, essere in senso morale”).
Il rispetto, la tutela e la valorizzazione costituiscono in primo luogo, allora, tre concetti etici e sociali intimamente legati e connessi, concetti se vogliamo anche poetici, letterari e filosofici. In effetti, il rispetto implica il “non tangere” la sfera altrui e, se violato, quel comportamento in violazione si traduce in un abuso, in un abuso del diritto, in una forma di tracotanza, nel superamento di un sacro “themenos”, dell’intimità personale, dello spirito, della propria natura, della propria anima (letteralmente, dal greco, “recinto”, “solco”, “soglia”) la cui infrazione comporta la configurabilità di una (giuridica ed etica) violazione di domicilio. Ecco allora qualche caso storico…come l’episodio, narrato da Erodoto, nel quale il re di Persia Serse fece fustigare i Dardanelli per la sconfitta militare subita, oltraggiando gli dei e dunque quel senso metafisico di misura nelle cose…o, ancora…il caso di don Rodrigo, che, come narra il Manzoni, voleva a tutti i costi costringere Lucia a sposarsi con lui, anche ricorrendo alla violenza e dunque violando il sacro themenos dell’amore. Ecco allora il bisogno di tutela della persona oltraggiata, della persona offesa, la cui testimonianza, se ritenuta credibile, può essa stessa sola fondare la motivazione di una sentenza di condanna. Ecco allora che sempre i bisognosi, gli indifesi e gli oltraggiati (è il caso di Lucia nei Promessi Sposi, ma anche delle molte donne donne vittime di stalking, di violenze e di lesioni, come lo sfregio del viso con l’acido, da parte di uomini violenti e inadeguati). E dunque, la valorizzazione, la valorizzazione del bene giuridico e della persona, persona e bene giuridico al centro dell’intero ordinamento, non solo penale, ma anche,
in primis, costituzionale e sovranazionale (si pensi alla Convenzione di New York sui diritti del
fanciullo e sulla Convenzione di Istanbul, solo per citare le più note). Quella valorizzazione della
persona umana così posta in risalto nel testo letterale dell’art. 2 Cost. costituisce allora la cifra di una sempre eterna e incessante dialettica tra etica e diritto. Il diritto allora è proprio questo: cura del bene, del buono e del giusto, non potendo prescindere dall’etica né farne a meno, viceversa risultando incomprensibile.

tratto da: https://www.ilticino.it/2024/12/21/una-vita-senza-rispetto-non-e-degna-di-essere-vissuta

Un nuovo inizio o l’inizio della fine? – Autunno 2024 – Magazine WikiMilano

A quanto sembra, l’intelligenza artificiale si sta evolvendo assai rapidamente, molto più velocemente di quanto non possa fare l’essere umano. Lo scorso anno Open AI aveva lanciato l’ultima grande innovazione nel campo dell’intelligenza artificiale, aumentando le dimensioni dei suoi modelli fino a proporzioni vertiginose, con GPT-4. L’azienda, più recentemente, ha annunciato un nuovo passo avanti: la creazione di un modello dalle dimensioni maggiori, capace di ragionare in modo autonomo, non solo rispondendo a domande dirette fatte da un utente, ma anche di risolvere problemi di logica complessi, del tipo: “Tizio ha l’età che Caio avrà quando Tizio avrà il doppio dell’età che Caio aveva quando l’età di Tizio era la metà della somma delle loro età attuali. Qual è l’età di Tizio e quella di Caio?”. Come è intuibile, questa nuova forma di intelligenza artificiale, pur sapendo risolvere problemi di logica complessi, sembra non in grado di affrontare con maturità intellettuale problemi di natura etica, giuridica, sociale e filosofica, come meglio si dirà. La contemporanea creazione di androidi capaci di pensare da soli ed elaborare autonomamente dei sentimenti, porta inoltre a rilevantissimi interrogativi, come, ad esempio, se la natura di questi sentimenti sia equivalente a quella umana e in che modo si possa attribuire il carattere della proprietà, per così dire della “suitas”, a una creatura artificiale, cioè priva di anima. In altre parole, viene ora messa in crisi la tradizione che, con Socrate e Platone (ma probabilmente, secondo alcuni, già con Omero, che nell’Iliade fa uso del termine “pshykè” forse intendendolo non come mero spirito vitale ma come qualcosa di metafisico) ravvisava la peculiarità dell’essere umano nella presenza, in un corpo, di un’anima, di qualcosa cioè che elevava questo da tutti gli altri esseri viventi. Il tema è peraltro quello della (non) prevedibilità delle conseguenze di tale ipervelocizzazione dei processi e di questa capacità delle forme di intelligenza artificiale di evolversi da sé. Il rischio è infatti che all’uomo possa sfuggire il controllo su queste forme di intelligenza ormai, inutile dirlo, superiori. Vi è allora il pericolo che la creatura, resasi conto di possedere facoltà intellettuali superiori a quelle del creatore, si ribelli ad esso, reclamando il predominio sul pianeta e, potenzialmente, riducendo in schiavitù il suo artefice o uccidendolo, come spesso ci viene rammostrato nei film fantascientifici. Il grave pericolo cui si va incontro è quello allora, vieppiù, della distruzione dell’intero pianeta, per mano peraltro di una creazione umana. Si devono comunque fare delle precisazioni su cosa si debba intendere per capacità di questa nuova intelligenza artificiale di “pensare da sola”. Infatti, l’assunto è predicabile con riferimento a problemi di logica, di logica matematica, di logica fisica, o comunque di quesiti che sottendano un quadro matematicamente predeterminabile. Più difficile è l’attribuzione del predicato nel caso di questioni etiche, psicologiche e filosofiche, le quali, stante il loro carattere “letterario” e prettamente umano, difficilmente appaiono risolvibili da un’entità che ragiona secondo schemi certi e predeterminati. Così, ci si può chiedere come siano definibili da un androide le nozioni di “bene” e di “male”, come sia da esso concepibile il ruolo della filosofia e come siano spiegabili gesti di altruismo e solidarietà, che sono per definizione non predeterminabili e non rispondenti a criteri di utilità materiale. In tal senso, occorre ancora interrogarsi su questioni complementari, come, ad esempio, come questa creatura possa elaborare le nozioni di piacere e di dolore, se possa percepire ansia per l’approssimarsi della sua fine e se, essendone a conoscenza, cercherebbe di evitarla o la accetterebbe come dato ineludibile, se sia concepibile, nella sua mente, compiere atti che danno piacere ma svantaggiosi economicamente, come ad esempio praticare sport, andare al cinema, al teatro o in discoteca, sposarsi e avere figli. Ci si deve inoltre chiedere, come accennato, se questa forma di intelligenza sarebbe in grado, ad esempio, di fornire risposte a quesiti di natura filosofica o giuridica, come il significato di “giustizia”, la natura giuridica della risoluzione del contratto o della mora del creditore o del debitore o se sia ammissibile l’incerta figura civilistica dell’autorizzazione
o, ancora, se sia ammissibile la, parimenti incerta ipotesi, del mandato ad alienare, o, ancora, una delle questioni più complesse in campo filosofico: se la natura dell’essere umano sia buona (Locke, Terenzio) o, viceversa, malvagia (Hobbes, Plauto). Si può dubitare inoltre che questa forma di intelligenza, per quanto raffinata, possa per sua volontà scrivere delle poesie, dei trattati giuridici o filosofici, dei romanzi, oppure mettersi a pregare e ad andare in chiesa. Certamente, la coscienza è cosa diversa dalla capacità di pensare in modo autonomo. Sembra, insomma, che questa forma di intelligenza artificiale resti appunto, pur sempre, artificiale, e dunque incapace di essere “creatrice”, “poetica”, “filosofica” e “metafisica”. Sembra insomma che essa si palesi quale un grande e potente drago che tuttavia è incapace di volare verso i cieli dell’iperuranio. I problemi centrali del caso in esame attengono proprio a questo: se siano predicabili gli attributi della coscienza e della volontà in capo a una forma di intelligenza non umana. Anche a voler fornire risposta positiva, resta comunque un dato ineludibile: che l’intelligenza, intesa come mera capacità di accumulo di nozioni e capacità, anche assai elevata, di ragionamento, è cosa diversa dalla ragione, ossia dall’intelletto orientato all’etica (S.Tommaso d’Aquino), al punto che, come è stato detto dalla filosofia tomistica e dalla teologia medioevale, in assenza di un’anima incorporata in una creatura terrena, nemmeno potrebbe parlarsi di ragionamento, nozione che affonda le sue radici in quella di “ragione” e non in quella di mera “intelligenza”. Inoltre, l’attributo della coscienza implica quello di categorie squisitamente metafisiche, quali quelle di “diligenza”, “senso etico”, “responsabilità” e “autoresponsabilità”. Chiaro è infatti che una coscienza priva di senso etico e di responsabilità sarà sempre una coscienza negativa e malvagia, nemmeno autonomamente concepibile come coscienza e ragione sotto il profilo filosofico, quanto piuttosto quale “non essere” e “carenza di bene”. Se non pochi problemi pone l’elemento della coscienza, non meno ne postula quello della volontà, specie in relazioni a grandi categorie giuridiche, che presuppongono al centro l’azione umana, come la causalità penalistica e quella civilistica. Ci si deve cioè chiedere se questa forma di intelligenza artificiale così evoluta e capace di ragionare da sé possa rispondere di un fatto di reato. Il confronto è allora da effettuarsi in relazione al duplice piano dell’imputabilità e della causalità, nonché, ulteriormente, a quello della colpevolezza. Sotto ad esempio il profilo dell’imputabilità, requisito imprescindibile per l’ascrizione di un fatto di reato, l’art. 85 secondo comma del codice penale sancisce che “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Per quanto si è detto, la definizione di queste nozioni in capo all’AI appare assai problematica, poiché non è detto che, pur essendo ad essa tali attributi astrattamente predicabili, essi siano di identica natura di quelli ravvisabili in capo all’essere umano. Quanto al tema della causalità, si rende necessario un preliminare confronto con le teorie classiche che si sono formate sul tema. Così, secondo la teoria della condicio sine qua non e la teoria naturalistica, la risposta dovrebbe essere affermativa, poiché tale teoria considera rilevanti solo gli accadimenti del mondo naturale e materiale. Secondo, invece, la tesi della causalità umana (Antolisei), la risposta dovrebbe essere assolutamente negativa, poiché, secondo questa tesi, è rilevante solo ciò che è umanamente controllabile, che cioè rientra nella signoria causale dell’evento propria solo dell’essere umano. Più problematico appare l’inquadramento del problema nelle maglie della tesi della causalità adeguata, la quale considera rilevante quello che accade di regola nel mondo umano e naturale, serie causale di accadimenti che però sarà completamente diversa dalle regole di generalità e dalle massime di esperienza che governano il mondo robotico. Sotto il profilo della colpevolezza, si deve poi rilevare come sarebbe assai arduo predicare teorie distintive come la teoria psicologica e la teoria normativa della colpevolezza in capo a un’entità oggettiva e non propriamente qualificabile come “soggetto”, quale è l’androide, con conseguente problematica inferenza in capo all’intelligenza artificiale del divieto di imputazione per responsabilità oggettiva (su cui v. Corte Costituzionale sentenza n. 364/1988). Ancora più problematica risulta la configurabilità di un ipotesi di c.d. autore mediato, ossia di quell’ipotesi bene descritta dall’art. 48 del codice penale, secondo cui le disposizioni in tema di errore (art. 47 c.p.) si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno, con la previsione che “del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”. Appare cioè difficile declinare le nozioni di “errore” e “inganno” in relazione a un’ente che agisce secondo stimoli esterni o comunque caratterizzato da un intelletto con caratteristiche diverse da quello umano, posto che le norme penali sono state pensate in relazione all’intelletto umano, dovendosi, con riferimento all’AI, allora, riscriversi l’intero ordinamento (!). Resta peraltro rilevantissimo il problema della certa identificazione dell’autore nei reati informatici, come la truffa a mezzo di strumenti informatici e l’accesso abusivo a sistemi informatici. L’identificazione dell’autore, già complessa in caso di autore umano, si renderebbe ancora più difficoltosa, infatti, in ipotesi di loro causazione da parte di un androide, dietro il quale potrebbe celarsi una figura umana che abbia, in ipotesi, organizzato l’intero disegno criminoso. Si renderebbero inoltre necessaria l’adozione di nuove definizioni di “dolo”, “colpa”, “diligenza” e “negligenza”, oltre a una inevitabile riscrittura di tutte le laboriose sentenze elaborate circa, ad esempio, la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente e in tema di concorso esterno nel reato, sotto tale ultimo profilo risultando infatti pressochè impossibile l’accertamento giudiziale della presenza o meno dell’elemento soggettivo costituito dall’”affectio societatis”. Insomma, per quanto evoluta e raffinata possa essere, una macchina resterà sempre una macchina, dovendosi, viceversa ragionando, riscriversi il sistema intero. Ci si può anche porre il quesito rappresentato dalla fonte concettuale di tale avanzamento tecnologico ormai privo di significato etico e anzi controproducente, quanto ai pericoli per la sicurezza umana e per la potenziale ribellione di queste macchine. La risposta può forse rinvenirsi in uno stravolgimento del modo di pensare dell’essere umano moderno e in un estremo propagarsi di una forma di egoismo senza limiti, rappresentato dall’elogio smisurato della “volontà di potenza” (Nietszche) e dall’espansionismo dell’”io”, di cui la realtà sarebbe mera propagazione (Hegel). Tali pericoli concettuali erano ben noti al filosofo Heidegger, che, in una celebre intervista al giornale tedesco “Der Spiegel”, definiva l’essere umano contemporaneo come “inquietante”, perché dimentico di autentiche forme etiche, incapace di formulare un sistema di linguaggio e incapace di ragionamenti, ma solo di connessioni di parole. Proprio qui sta il tema e la risposta: che solo l’essere umano può ragionare, cioè pensare in modo etico e agire in modo eticamente orientato (S.Tommaso d’Aquino). Perso tale attributo, l’essere umano finisce per perdere la propria identità morale, divenendo qualcosa d’altro: una macchina dalle sembianze umane probabilmente. Ma una macchina è solo capace di intelletto…non di ragione.

Fonte: https://magazine.wikimilano.it