Caporalato, il ritorno della schiavitù in Italia

Il caporalato merita di essere annoverato tra i delitti che ledono i diritti fondamentali dell’essere umano

di Gustavo Cioppa
Magistrato, già sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Posto che l’attività delittuosa merita sempre aspra condanna, vi sono determinati reati estremamente diffusi nel tessuto sociale italiano e particolarmente gravi, espressioni molto spesso di una vera e propria privazione della dignità umana e certamente comunque di un grande disvalore. Tra questi deve senza dubbio essere annoverato il reato di cui all’art. 603 bis del codice penale, ossia il delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, meglio noto come caporalato, reato offensivo del bene giuridico rappresentato dal diritto al lavoro, bene giuridico di sicuro fondamento costituzionale, negli articoli 1 e 4 della Costituzione, secondo cui l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 comma 1 Cost.) e secondo cui la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art. 4 comma 1 Cost.). Al di là del suo inquadramento scientifico, il caporalato sembra tristemente essere diventato una consuetudine e questo si traduce in un’inaccettabile forma di disprezzo per la vita umana.

Le condizioni umilianti e disumane dei lavoratori extracomunitari

E infatti il lavoratore, spesso proveniente da Paesi extracomunitari, deve sottostare a condizioni umilianti, soffrendo tutti i giorni condizioni di vita disumane. Quale allora il prezzo da pagare per la propria libertà? Fuggire da una situazione di miseria economica, da guerre o da condizioni di schiavitù per ritrovarsi in situazioni di assoggettamento della propria vita al volere di una persona che può disporre del corpo e della libertà morale dei lavoratori? Proprio questa è la situazione che vivono coloro che lavorano per un caporale: una condizione di pieno e assoluto assoggettamento al volere di una persona che detiene una sorta di ius vitae ac necis sui suoi sottoposti.

Il caporalato bene merita allora di essere annoverato tra i delitti che ledono i diritti fondamentali dell’essere umano, perché si traduce in primo luogo in un’intollerabile offesa al senso di umanità. Chi accetta le condizioni imposte dal caporale spesso lo fa perché non ha scelta: perché l’alternativa è una morte certa…e allora? Allora si è costretti a scegliere la schiavitù, per non morire, ma a costo comunque del sacrificio della dignità umana, come nel caso dei braccianti di Latina, cui venivano somministrate sostanze stupefacenti affinché essi lavorassero anche 21 ore al giorno, oppure nel caso dei braccianti di aziende agricole, come in Emilia Romagna, costretti a lavorare nelle ore più calde del giorno in questa caldissima estate. Si accetta di non avere un giorno di riposo, di lavorare per meno di 5 euro all’ora, di non potersi sposare, di vivere in fabbricati fatiscenti privi di servizi sanitari, di non poter pranzare o cenare, di non poter avere una vita sociale. La persona viene allora ridotta a oggetto, a merce.

L’ipotesi del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù

Sorge allora la domanda: è questa vita o vi sono gli estremi per la denuncia non solo del reato di cui all’art. 603 bis c.p. ma anche per quelli del reato di cui all’art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù)? Probabilmente il capo di imputazione ben potrebbe ricomprendere anche tale seconda fattispecie criminosa, che ben descrive cos’è la schiavitù: non un generico sfruttamento, comunque tristemente diffuso, ma la riduzione o il mantenimento di una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative umilianti e a pericolo della sua stessa vita, con pieno potere di disposizione del caporale sul corpo e sulla volontà di queste persone, ridotte a merce, private in definitiva della loro anima, poiché un “no” a questo tiranno implicherebbe, nella migliore delle ipotesi, ritorsioni e percosse, come è accaduto di recente nelle Langhe. E allora quale il prezzo da pagare per guadagnare quei pochi spiccioli per non morire di fame?

Rinunciare alla propria dignità personale e alla propria libertà: barattare una morte certa con un destino di schiavitù. La schiavitù non è allora stata abolita con il passaggio a uno Stato di diritto. La rivoluzione francese, che tanto proclamava ideali di libertà ed uguaglianza, si è del resto caratterizzata per una grande violenza e per molte morti di innocenti e non ha comunque risolto il problema della schiavitù economica, ossia di quell’atteggiamento di chi concede sì un lavoro o una fonte di reddito a una persona in difficoltà economiche, ma a un prezzo elevatissimo per quest’ultima: la rinuncia alla propria dignità. Ciò probabilmente giustifica l’affermazione di chi, come il filosofo Schopenhauer, ha sostenuto che nello Stato di diritto si è semplicemente passati dalla logica del più forte a quella del più furbo.

La consapevole malvagità del caporale

E appunto cosa diversa è la malvagità che spesso si cela dietro alla furbizia rispetto alla ragione – non mera intelligenza in senso stretto (per un approfondimento v. quanto scriveva sul tema S. Tommaso D’Aquino) -. Sotto questo profilo, il caporale è una persona astuta, ma non certo dotata di ragione, ossia di bontà morale. Egli è appunto astuto, ma malvagio, nel momento in cui adotta determinate strategie lavorative o fiscali per eludere il versamento delle imposte, sottopagando i propri dipendenti e non pagando loro i contributi dovuti per legge.

Nonostante questa malvagità, molte persone, spesso provenienti da altri Paesi, per sfuggire a guerre o a situazioni di sostanziale privazione della vita, vengono in Italia…per ritrovarsi spesso in situazioni ancora peggiori, come ben espresso da un bracciante africano intervistato nel contesto del caporalato pugliese. Questo è allora l’eterno ritorno della schiavitù. Si tratta di un dramma vissuto anche in altri ambiti, come quello della prostituzione, ove il pappone recluta queste ragazze costringendole a prestazioni sessuali, spesso dietro percosse (si rientrerebbe anche in questo caso, come in quello del caporalato, nell’ipotesi del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù ex art. 600 c.p., alla luce del dettato letterale di tale ultima norma, che punisce “chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali, ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi”).

Il caporalato deve essere sradicato dal tessuto sociale

Se allora vale nel nostro ordinamento il principio di effettività del medesimo (cfr. sul punto Kelsen, Zagrebelsky, Rodotà) e se le norme giuridiche costituzionali possiedono dunque una reale, diretta ed immediata portata precettiva, va da sé che, fenomeni come quelli del caporalato, come pure quelli, ad esso similari, dello sfruttamento della prostituzione, tutte manifestazioni di un vero e proprio assoggettamento continuativo della persona, con costrizione di questa di prestazioni umilianti, non solo meritano aspra condanna da parte di tutti, ma necessitano di un pronto ed effettivo sradicamento dal tessuto sociale. Ciò è possibile solo attraverso un recupero delle forme etiche tipiche dell’essere umano e di una stessa forma etica dell’economia, un’economia e un mercato del lavoro cioè che non tendano allo sfruttamento e al mero accaparramento del profitto, con conseguente svalutazione del sostrato umano che, come sorregge i rapporti umani, così sorregge quelli lavorativi.

In un certo senso, il tema in esame si accosta ai pericoli dell’intelligenza artificiale, alla considerazione cioè dell’essere umano non più come persona ma come mero prodotto e, stante tale inaccettabile qualificazione come merce, il diritto in capo al datore di lavoro di disfarsi di esso una volta divenuto non più produttivo. In tal senso è imprescindibile un recupero dell’equità. Il riferimento è senza dubbio a quanto dispone l’art. 1374 del codice civile, secondo cui “il contratto obbliga alle parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità”. Il riferimento all’equità appunto, equità che non può essere intesa quale elemento residuale ma rappresentante piuttosto un principio fondamentale che permea tutto l’ordinamento, giuridico e non solo.

L’emblematica e drammatica vicenda di Satman Singh

L’equità però non è un precetto solo giuridico e astratto-teorico. Essa deve essere concretamente posta in essere nei rapporti umani, compresi quelli lavorativi. Ecco allora che non devono più verificarsi fatti come quello, recente, di Satman Singh, bracciante trentunenne di origine indiana, che, anziché essere prontamente soccorso a seguito di un infortunio sul lavoro, ove gli era stato rimasto tranciato un braccio e schiacciati gli arti inferiori, è stato abbandonato davanti alla porta di casa, poggiato sopra una cassetta utilizzata per la raccolta degli ortaggi.

Il caso di Satman è solo l’ultimo di una serie di soprusi che tuttora proseguono, con una spirale simile a quella dei femminicidi. Tutto questo chiaramente è inaccettabile e merita pronta risposta, sotto più versanti, con particolare riferimento all’abbattimento dei costi del lavoro, alla premiazione della qualità attraverso dei rating aziendali, specialmente ai fini dell’aggiudicazione di appalti pubblici, rating che, per essere rilasciati, tengano in considerazione le condizioni di lavoro all’interno dell’impresa, alla previsione di una specifica causa di esclusione automatica dalla partecipazione alla gara per l’impresa che commetta il reato di caporalato e di una sospensione della procedura di gara in caso di indagini a carico della stessa per la medesima ipotesi di reato, oltre a un più generale e necessario coinvolgimento solidale ed etico verso una forma di morale economica, che valorizzi maggiormente il ruolo della persona.

Un richiamo ai doveri della solidarietà umana

In tal senso militano la tesi dell’impresa come istituzione, l’istituto dell’impresa sociale e quello dei contratti di solidarietà. Queste tre fattispecie evocano una più generale forma di eticità dell’economia, ossia un’economia (letteralmente dal greco “oikos”, cioè “casa”) capace di fornire tutele e protezioni, un’economia in senso autentico che, rifuggendo da logiche improntante esclusivamente al profitto e tendenti a svalutare la centralità della persona, ripensi a se stessa.

Un recupero etico questo che peraltro molte imprese virtuose stanno ponendo in essere, con l’assunzione di lavoratori invalidi e di persone anziane, di modo che, quella “fame di contratto” ben enunciata da un bracciante africano raccontava della sua grande delusione rispetto alle promesse di una vita migliore e delle condizioni disumane di lavoro e abitative, sia un dato che certamente deve essere ricordato, ma che possa dimostrarsi inattuale, se…tutti…agiremo insieme, adempiendo agli inderogabili doveri di solidarietà umana che il nostro senso di onestà e di autenticità morale ci impone.

Fonte: https://www.affaritaliani.it/milano/caporalato-il-ritorno-della-schiavitu-in-italia-932042.html

La responsabilità

La responsabilità rappresenta un principio universale e al tempo stesso una forma e un modo d’essere dell’ordinamento giuridico, economico e sociale, nonché dello Stato, inteso come Stato-comunità. Oltre che una dimensione strettamente pubblicistica e superindividuale e che trascende l’individuo, la responsabilità presenta altresì una dimensione privatistica e afferente alla personalità e alla psiche di ciascun soggetto, nel senso grammaticale, etico e concettuale del termine. Ecco allora che la responsabilità si declina su molteplici piani: quello etico, quello politico, quello economico e quello giuridico, come meglio si dirà infra. Sul piano grammaticale, la responsabilità è la principale attribuzione del soggetto, inteso come entità capace di autodeterminarsi e di compiere scelte, come comprova la scomposizione letterale del termine in “capacità” (letteralmente: “abilità”) di fornire responsi, che siano adeguati, convincenti, concreti, efficaci ed effettivi. Ecco allora che, come il mondo materiale non avrebbe senso, perché altrimenti incontrollabile, senza le leggi della fisica, così l’ordinamento non sarebbe concepibile nella sua realtà ontologica se privo di regole e di correlative sanzioni. E infatti tutte le norme, ancorchè di carattere etico, sociale o psicologico, sono coperte da una sanzione. Proprio in tal senso ben si apprezza dunque la più profonda giustificazione causale della responsabilità, quale principio, regola e sanzione, nonché, ancor prima, quale significato a monte dell’agire umano e pilastro portante della civiltà. Non sarebbe infatti predicabile una scelta del soggetto senza che lo stesso sia tenuto a risponderne, poiché altrimenti verrebbe a perdere di significato il ruolo della psiche come fonte di responsabilità, della kantiana legge morale, che proprio a tale funzione assolve, ossia il ricordarci che i precetti giuridici e morali non sono solo entità a noi esterne, ma fanno parte della nostra natura, quali creature intrinsecamente responsabili perché portate al bene, perché “teste d’angelo”. Senza responsabilità verrebbe meno, altresì, l’equilibrio dei rapporti sociali, nonché la misura della relazione tra noi e il mondo esterno. Ecco perché l’azione irresponsabile viene punita con una sanzione: perché rompe il sistema, rompe il fascio obbligatorio che regola l’ordinamento, fascio obbligatorio che da alcuni autori processualcivilisti tedeschi verrà ben definito come “rapporto giuridico fondamentale”. Occorre allora scandagliare i vari piani concettuali su cui si declina il tema oggetto di indagine. In primo luogo il profilo etico, ove la responsabilità assurge, come accennato, a regola di funzionamento della società civile, al pari di come nella fisica ogni azione produce una reazione uguale e contraria. Il riferimento alle regole fisiche evoca il principio più generale del significato dei rapporti sociali, di come cioè si sia passati da uno stato di natura allo stato di civiltà, attraverso la stipula del contratto sociale, la cui prima regola si traduce nel brocardo latino “pacta servanda sunt”. Quale precetto etico, la responsabilità si traduce in norma conformativa dei comportamenti umani e quale sanzione in caso di violazioni, in ossequio alla nozione di giustizia distributiva, che presuppone a monte una scelta etica: scegliere, letteralmente, come “fare le parti” (infatti, il fato, in greco “moira” deriva da un verbo greco che proprio significa “fare le parti”). Tale ultimo addentellato concettuale si riconnette anche a una tematica teologica, ossia della responsabilità quale principale attributo di Dio, sebbene in un’altra declinazione rispetto a quella valevole per gli esseri umani. Mentre infatti le vite e le scelte dei mortali non seguono la necessità, essendovi dissociazione, nel mondo terreno, tra “volere” e “potere”, l’essenza di Dio sta proprio nella necessità, ben espressa dal dantesco “vuolsi colà ove si puote ciò che si vuole”. Se infatti Dio è Bene e Giustizia, le sue scelte saranno sempre responsabili e dunque la responsabilità viene a configurare il suo principale attributo, nell’accezione però di una responsabilità necessitata.

La responsabilità assume particolare pregnanza altresì con riferimento alla vita politica, che con il tema etico presenta indubbie inferenze, traducendosi la politica, nel significato greco del termine (“politeia”) quale cura dell’interesse pubblico a tutela e a beneficio della comunità di riferimento, a fronte dei cui elettori il politico è responsabilizzato quale garante, quale espressione della volontà del popolo, espressione, per dirla con la filosofia tedesca, dello spirito del popolo (Volkgheist), a fondamento e giustificazione della concezione di Stato non solo come Stato-apparato, ma, prima ancora e soprattutto, come Stato-comunità, ossia come comunità aggregata per la realizzazione di interessi generali e di comuni valori etici. Sul piano politico, allora, la responsabilità si traduce quale regola di gestione delle vite dei cittadini, in termini di scelte di politiche del lavoro, di politica criminale (ad esempio sulla conformazione della prescrizione dei reati, l’introduzione di nuovi delitti e contravvenzioni e la modifica del 2005 in tema di recidiva) e di politica processuale (la modifica della struttura del processo civile di cognizione, l’inserimento, nel processo di esecuzione, dell’ipotesi della vendita diretta, l’introduzione di nuovi riti speciali, come la sospensione del procedimento con messa alla prova, l’introduzione di requisiti di specificità maggiormente stringenti quanto ai motivi dell’appello penale ex art. 581 c.p.p.). Centrale è, ancora, la responsabilità nella politica economica, con particolare riferimento alle scelte di gestione del denaro pubblico, la cui cattiva scelta gestionale può comportare una forma di danno erariale, con conseguente intervento sanzionatorio degli organi di giustizia contabile. Sotto il profilo più strettamente economico, la regola di responsabilità rappresenta la norma di comportamento fondamentale su cui si è fondata tutta la normativa economico-contabile, sia a livello statutale che locale che a livello europeo (cfr. su tutte le normative intervenute, la l. n. 559/1993, che ha segnato la soppressione delle gestioni fuori bilancio nell’ambito delle amministrazioni dello Stato). A una primaria funzione responsabilizzante, in chiave di previsione e di delineamento delle linee strategiche tanto dell’azienda privata quanto dell’ente pubblico, assolve il bilancio, nonché, ex post, il rendiconto, unitamente, almeno con riferimento alla gestione economica degli enti locali, a una serie di documenti, tra cui il documento unico di programmazione (DUP), che rappresentano le linee guida ed operative dell’ente. Così, gli amministratori, nel momento in cui propongono l’inserimento di una voce di entrata o di spesa nel bilanci, e l’assemblea (con riferimento alle società di diritto privato) o il Consiglio (con riferimento a Stato, Regioni, Province e Comuni), assumono una grande responsabilità, quali garanti del buon andamento dei conti pubblici, unitamente ai sindaci e agli organi di revisione, nonché alla figura del segretario comunale, garante della legalità negli enti locali e di norma responsabile anticorruzione, ai sensi della l. 190/2012. Poichè è necessario rispondere all’interrogativo “quis custodet custodes?”, su tale quadro interviene il sistema dei controlli interni (art. 147 e ss. d.lgs. n. 267/2000) ed esterni (il controllo, principalmente, della Corte dei Conti) – si introduce allora qui il tema delle posizioni di garanzie, quali forme di garanzia dell’adempimento dei doveri di responsabilità (cfr. anche art. 40 comma 2 c.p.), su cui si tornerà a breve -. Appare d’uopo osservare, per quanto detto, come anche le regole economiche rispondano in primo luogo al tema della responsabilità, essendo infatti previste dure sanzioni (art. 2392 c.c., art. 2409 c.c., art. 141 comma 1 lett. c) d.lgs. n. 267/2000, art. 148 comma 4 d.lgs. 267/2000), in caso di inadempimento a tale dovere etico e giuridico al tempo stesso, oltre che di vero e propria obbligazione (Bianca, La responsabilità). La tematica della spendita di denaro pubblico, in definitiva il denaro versato dai cittadini, prevalentemente tramite le imposte, si riconnette, in chiave di responsabilità del potere di sua spesa e gestione, al tema non solo dei debiti fuori bilancio, ma altresì a quello dell’equità intergenerazionale, principio di natura sovranazionale richiamato anche negli allegati al d.lgs. 118/2011, che si traduce in una forma di giustizia equitativa e sociale volta a garantire alle future generazioni dei servizi e un ambiente, inteso come ecosistema ma non solo, pari o migliore a quello che abbiamo trovato noi (il tema peraltro presenta a sua volte inferenze col principio europeo “chi inquina paga”, a sua volta espressione di responsabilità, cfr. per ulteriori spunti di riflessione Ad. Plen. n. 3/2021). Certamente, però, il terreno per così dire privilegiato della responsabilità in senso tecnico quale formante obbligatorio e norma primaria di comportamento, è quello giuridico, con particolare inferenza, ancora una volta, all’etica e a quei doveri morali e sociali a fondamento dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), ma, tutto sommato e in definitiva, anche dell’obbligazione civile, secondo una concezione estensiva dell’obbligazione, nel suo significato di vincolo sì giuridico ma giuridico in senso lato e non in senso stretto – in tal senso allora il dovere morale, inteso quale forma etica sul piano individuale ed interno, e il dovere sociale, quale forma etica sul piano collettivo ed esterno, finirebbero per colorare di significato l’intera categoria funzionale dell’obbligazione (cfr. peraltro il complesso tema, correlato, della coercibilità dell’obbligazione naturale) -. In tal senso, l’etica diventa diritto, e viceversa, e la responsabilità, intesa come rapporto relazionale tra il singolo e gli altri consociati e, prima ancora, tra il singolo e l’intero ordinamento (concezione pubblicistica dell’obbligazione), si traduce come autoresponsabilità, ossia come relazione obbligatoria del singolo con se stesso, nozione evocante quella kantiana di legge morale che ha messo in un certo senso in crisi il dogma stesso della dualità dell’obbligazione. L’autoresponsabilità, allora, trova sì fondamento, come si è detto tradizionalmente, nel precetto di cui all’art. 1227 c.c. (da leggersi in combinato disposto con gli artt. 1176 c.c. e 1218 c.c.), ma evoca altresì un precetto ben più ampio, lo stesso accennato nella categoria dei concetti giuridici indeterminati e più ancora in norme dal pregnante contenuto etico, come quelle di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione, espressioni di altrettanti principi su cui si è spesa illustre letteratura giuridica. La Costituzione reca peraltro indubbie norme fonti di responsabilità e di posizioni di garanzia, come l’art. 28, in tema di responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, l’art. 81 comma 2, sul carattere eccezionale e comunque tassativo del ricorso all’indebitamento, e gli artt. 97 comma 1 e 98 comma 1, con specifico riferimento alla pubblica amministrazione. La responsabilità si presenta allora quale principio trasversale ai singoli rami dell’ordinamento giuridico, e come tale non “spacchettabile”, né considerabile in modo frammentario e settoriale. Così, nel diritto amministrativo essa richiama il tema, primariamente, della responsabilità della pubblica amministrazione, sulla cui natura, se contrattuale o extracontrattuale, da tempo si discute. Nel diritto tributario la primaria norma di responsabilizzazione dei contribuenti si rintraccia agevolmente nell’art. 53 comma 1 Cost., secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, cui fanno da contraltare le norme antielusive (art. 10 bis l. 212/2000, art 37 bis dpr 600/1973) e le disposizioni di carattere penale (d.lgs. n. 74/2000). Nel diritto penale, poi, la responsabilità trova la propria consacrazione nella sua forma più alta, risolvendosi il giudizio penale in una forma di responsabilità tra il singolo e l’intero ordinamento, ove l’imputato è chiamato a dare conto delle proprie azioni avanti a un giudice, che, in forma monocratica o collegiale, è espressione della comunità (ossia dello Stato – comunità) lesa dalla condotta antigiuridica e offensiva. Ecco allora l’inferenza con la tematica delle posizioni di garanzia e con quella del bene giuridico. L’art. 40 comma 2 c.p., infatti, non solo fonda, come si è tradizionalmente rilevato, la categoria funzionale delle posizioni di garanzia, ossia di quelle norme, scritte o non, che attribuiscono una posizione di tutore della legalità, non solo astratta ma anche concreta, a determinate persone. La predetta disposizione, infatti, rappresenta il fondamento causale della teoria del bene giuridico, da più voci, in dottrina e in giurisprudenza, contestata, perché, si è detto, deriverebbe da un ordinamento, quello tedesco, distinto dal nostro, e poi stante il suo carattere indefinito, difficilmente compatibile con il principio di legalità ex art. 25 Cost. A tali obiezioni è infatti possibile agevolmente replicare facendo constare come il precetto, non solo strettamente giuridico ma anche etico, di cui all’art. 40 comma 2 c.p., faccia intravedere un mondo di valori e di principi, un universo metafisico parallelo ed ulteriore a quello delle disposizioni di legge, insomma, che non può essere trascurato e dato tamquam non esset. Questo universo metafisico è allora governato in primo luogo dai principi di Bene, Giustizia, Equità e Protezione, come già ben accennato nella filosofia di Platone. La responsabilità allora si traduce in fonte di protezione e di tutele e, in una visione circolare, rappresenta l’alfa e l’omega dell’ordinamento. La responsabilità, come detto all’inizio, deve essere fonte allora di scelte effettive, efficaci e concrete, nonché rispondenti a una reale sostanza non trincerabile dietro la mera forma. Tale aspetto merita approfondimento. Infatti, tanto nella realtà amministrativa quanto etica, politica ed economica, oltre che sul piano della simulazione giuridica e dell’elusione, ricorrono comportamenti a vario titolo truffaldini e comunque contrari a giustizia, che si caratterizzano per una parvenza di legalità, che tale è però solo da un punto di vista meramente formale, risultando invece le predette condotte prive di reale sostanza meritevole di tutela. I riferimenti sono alle categorie dell’interposizione fittizia di persona, alla simulazione soggettiva ed oggettiva, all’elusione fiscale, ma anche alle false attestazioni in bilancio, alla configurazione come voce di bilancio di un quid che invece ricadrebbe sotto altra voce, alle varie forme fenomenologiche della corruzione, della truffa e della frode in pubbliche forniture, oltre che della frode in commercio (art. 515 c.p.) e del reato di cui all’art. 642 c.p. (fraudolento danneggiamento di beni assicurati e mutilazione della propria persona). I frequenti fatti di cronaca, nazionali e internazionali, che danno conto delle continue violazioni della responsabilità e dell’autoresponsabilità, intese quali precetti etici e non solo giuridici, sia in via frontale che con meccanismi simulatori e fraudolenti più articolati, devono far riflettere. Se il concetto di responsabilità si riconnette, sul piano teologico e filosofico, a quello di bene, la corruzione, la simulazione e la frode si riconnettono a quello di male, male inteso non solo, nell’accezione comune, come l’uccisione o il ferimento di una persona, ma anche, nell’accezione biblica e fatta propria dalla teologia cristiana, come lesione diretta o indiretta della sfera altrui, anche in termini di mero approfittarsi dell’altro. Ecco allora che il romanistico e universale principio del “neminem laedere” si colora di significati ulteriori, fino a ricomprendere forme di lesioni non direttamente percettibili e che pure feriscono e sono dimostrazioni, sebbene in senso lato, di malvagità. Sotto tale profilo, allora, la lesione, sul piano penale, del bene giuridico, presenta sempre una duplice dimensione, individuale e collettiva, poiché accanto alla singola persona uccisa, truffata, depredata, ingannata o vittima di corruzione, vi è la lesione del legame di fiducia con lo Stato, quale comunità di consociati vincolati a reciproche forme di tutela e responsabilità. In tal senso, anche sul piano economico e amministrativo, atteggiamenti irresponsabili come il fare politica economica a debito oltrepassando la ragionevolezza del limite, imposto da norme di bilancio nazionali e sovranazionali e non solo, oppure l’affidare direttamente un appalto senza motivazione rafforzata, giovandosi delle norme del nuovo codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) che maggiormente concedono la forma dell’affidamento diretto rispetto al precedente d.lgs. n. 50/2016, devono essere censurati duramente e risolutamente. Il fatto poi che la violazione della norma di responsabilità sembri diventare un fenomeno su scala europea (il caso Qatargate e il caso che ha interessato la Germania, con l’accusa per il cancelliere Scholz di aver esposto dati non veritieri sui conti pubblici tedeschi) e internazionale (le inchieste che hanno riguardato i due candidati alla Casa Bianca, Trump e Biden) deve certamente destare l’opinione pubblica e del mondo intellettuale, per attivare un doveroso ripristino dell’Etica e della Politica con la “E” e la “P” maiuscole. In definitiva, la responsabilità, principio di verità dal multiforme aspetto, al pari di Iride dalle multiformi facce (Platone) funge da regola guida delle condotte umane, prescrizione sulla conformazione di queste al giusto e all’equo e fonte di tutela e, al tempo stesso, sanzione in caso di sua violazione, in caso, per dirla con Busnelli, di inadempimento dell’obbligazione primaria e fondamentale tra i membri dello Stato.

Gustavo Cioppa

Fonte: https://www.osservatorio.milano.it/post/responsabilita

Il Rap: arte o mera espressione? Quale il suo significato sociale? Regola o eccezione?

Articolo su WikiMilano Magazine

Il rap non è solo un genere musicale; è una forma espressiva, che deriva da una potente esigenza di denuncia e di ribellione contro realtà di disagio, violenza e soprusi. La necessità di comunicare e di condividere la protesta nei confronti delle predette realtà si manifesta in un linguaggio informale, una conversazione ritmata, di impatto immediato. Il termine “rap” deriva infatti dall’acronimo di “rhytm and poetry”, che ben esprime l’obiettivo e la natura stessa di questo genere.

La necessità di comunicare quello che ci disturba, che contestiamo, ha dato dimensione ad un nuovo modo di fare musica. In questa modalità espressiva tanti, soprattutto giovani, si sono da subito riconosciuti.


La forza del rap sta dunque nella capacità di parlare la lingua delle nuove generazioni e di toccare tasti per loro sensibili. I messaggi comunicativi “forti”, cantati, o meglio, rappati, costituiscono espressione di una sofferenza interiore verso una società incapace di ascoltare, basata sul profitto, sul rendimento, su prestazioni sempre eccellenti, in una parola, una società alienante (cfr, per un approfondimento del tema dell’alienazione, Hegel, e, sul piano strettamente economico e sociale, Marx e Mancuse). Poichè l’uomo contemporaneo non è più capace di comunicare, occorre allora ripensare a una forma di linguaggio (Wittegstein).


Quella rap può allora essere vista proprio in questi termini: una nuova forma di linguaggio. Noi però, quali membri della società civile, non possiamo rimanere indifferenti a questo malessere esistenziale, che la musica rap denuncia. Dobbiamo invece indagare sulle origini eziologiche di tale malessere, da rinvenirsi in primo luogo nell’ansia e nella preoccupazione per il futuro (non a caso questo movimento musicale nasce sul crinale degli anni della grave crisi economica del 2008 prima, della pandemia di Covid-19, delle recenti guerre, e di tutte le correlate conseguenze negative di tali eventi, come l’estrema difficoltà dei giovani di trovare un lavoro adeguatamente retribuito).


Il fenomeno sociale, ormai di estese dimensioni, non può certo essere ignorato, e sarebbe parziale e inadeguato qualsivoglia approccio ermeneutico che lo ignorasse. In fondo, se viviamo in una società lacerata nei rapporti sociali e, sotto molteplici aspetti, così malsana e portata all’eccesso, la causa deve essere rinvenuta nell’artefice, nell’autore, ossia nelle nostre condotte.


Poichè infatti nulla si causa da sé, e ferma la regola della causalità umana, dobbiamo allora, con severità, farci giudici di noi stessi e chiederci se vogliamo rimanere indifferenti, considerando lo status quo quale immanente e immutabile, o se, invece, vogliamo cambiare le cose, fermo che, se si crede che nulla cambierà, nulla cambierà per davvero (Falcone).


Alcuni rapper, come l’autore della canzone che ha ottenuto il secondo premio al festival di Sanremo e non pochi altri esempi, peraltro, sembrano discostarsi dal trattare temi squisitamente afferenti a disagi che caratterizzano, purtroppo, la nostra società. Allora la musica rap è sì un canto di sofferenza, un canto contro le ingiustizie sociali, ma è anche qualcosa di più, un qualcosa che può diventare anche uno spunto per un concreto miglioramento collettivo, un momento di riflessione per una svolta, a partire dalla consapevolezza di ciò che i giovani, con i loro messaggi, ci vogliono trasmettere. Si deve allora riflettere con particolare attenzione su quale tipo di società sia quella attuale, verso dove stiamo andando e se sia questo il senso che vogliamo imprimere al nostro vivere e a quello della collettività. Così, nella “Coscienza di Zeno” di Italo Svevo, quando si dice che Zeno non vive, bensì si vede vivere, viene designato già nel ‘900 l’antesignano di quel malessere, individuale ma anche collettivo, a un tempo psicologico e sociale, che finirà per acutizzarsi nel secolo successivo.


Il tema della frustrazione, dello stress, dell’eccesso come valvola di sfogo, ma anche come forma di dipendenza e contrazione della libertà decisionale effettiva, si unisce allora a quello dell’alienazione (su cui già v., tra i più noti, Hegel, in generale, Marx e Mancuse, con riferimento all’alienazione economica). A livello psicologico e psicanalitico, l’alienazione rappresenta un vero e proprio dramma, traducendosi in una scissione mentale e spirituale tra l’”io” come sono e l’”l’io come appaio, tra l’”io” come piaccio a me e l’”io” come vengo giudicato dagli altri, tra, in sostanza, la prospettazione interiore e quella esteriore dell’”io”. Noi però siamo esseri unitari, siamo, appunto (e senza tautologia alcuna) “noi”.


L’individuo, insomma, non può essere “spacchettato” o “frammentato”. Tale pericolo di spacchettamento e frammentazione è implicito tuttavia nell’alienazione che caratterizza la società contemporanea e tale malessere, tale lacerazione interiore, viene fatto oggetto di canto da parte dei rapper.


Il sopracitato caso però di canzoni rap dal tono positivo, deve però fare un attimo rasserenare. Tale riespansione della positività deve essere salutata con favore, poiché la vita è per definizione bella e “dono”, dono non certo scontato, che giammai la frustrazione, lo stress e il pericolo dell’eccesso devono adombrare o comprimere. Ecco allora che, come il raggio di sole dopo un turbolento temporale, è bello pensare che dalla sofferenza cantata da questi autori possa nascere un fiore, un fiore simbolo della speranza e del desiderio di pace e giustizia, sentimenti che sempre devono inverare i rapporti sociali.

Fonte: https://www.wikimilano.it/wiki/Gustavo_Cioppa_-_Rap

I femminicidi. Molto più di un problema normativo.

Ospitiamo le riflessioni del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Il 2022 e il 2023 sono stati due anni drammatici quanto ai brutali femminicidi che si sono verificati. L’omicidio di Giulia Cecchettin è solo l’ultimo di una serie di tremendi fatti efferati, come l’uccisione di Giulia Tramontano, incinta di sette mesi, da parte del compagno, che per diverso tempo ha tentato di avvelenarla con veleno topicida, o quella di Concetta Marruocco, uccisa con circa quaranta coltellate dal compagno, o quella di Martina Scialdone, invitata dall’ex compagno ad una cena, per dei chiarimenti, cena tramutatasi in una trappola mortale.

L’elenco sarebbe ancora assai lungo. Preme allora riflettere sulle ragioni, criminologiche, sociali, psicologiche e, non da ultimo, filosofiche, del problema. Le contromisure messe in atto sul piano legislativo, infatti, non bastano. Non il “Codice Rosso” prima, né il “Codice Rosso Rafforzato” ora paiono infatti capaci di debellare il fenomeno criminale in esame, poiché le norme esistono e sono sempre esistite, ma possono essere sempre e comunque violate, come è stato, in tema di corruzione, per le misure di cui alla l. 190/2012.

Serve allora una riflessione che non si fermi alla superficie e alle regole di procedura, occorrendo invece un’analisi più profonda, sulle ragioni psicologiche, psicanalitiche e filosofiche che conducono a reati così efferati, non dissimili, per gravità e ampiezza del fenomeno, ai reati mafiosi o a quelli dei c.d. “colletti bianchi”, come da me sostenuto in un precedente articolo –“In piedi Signori, davanti a una Donna” -.

Il tema non è solo l’inquadramento specifico della fattispecie – femminicidio e non genericamente omicidio o muliericidio o uxoricidio – ma quello del significato della relazione sentimentale. La relazione con una donna viene comunemente classificata, infatti, come relazione amorosa. Occorre forse però fare chiarezza su questo sostantivo, centrale nella storia dell’umanità. Nell’antichità classica, Platone è stato forse il solo pensatore che ha enunciato la portata etica e spirituale dell’amore – non semplice “eros”, ma “agape” –. Mentre infatti i lirici arcaici come Archiloco o Semonide di Amorgo cantavano di un amore dissoluto, prevalentemente ridotto all’ambito del rapporto sessuale e con versi di vero e proprio spregio verso la figura femminile, Platone, in tre opere fondamentali, il Simposio, il Fedro e il Fedone, comprende come l’amore non sia la mera compiacenza carnale, pure descritta nel Simposio, ma come si tratti dell’incarnazione di un’idea, di un quidmetafisico (Fedro e Fedone), nella ben espressa lotta tra il cavallo bianco (la virtù, l’amore, l’agape) e il cavallo nero (il vizio, la mera compiacenza carnale). Il mito della scelta che spetta all’auriga, chiamato a dare forza al cavallo bianco che lo conduce verso l’alto o al cavallo nero che lo trascina verso il basso rispecchia la libera scelta in capo all’individuo tra bene e male e, più in generale, sull’interpretazione virtuosa o viziata della vita e delle manifestazioni fenomeniche di quest’ultima, la prima e più importante delle quali è senza dubbio l’amore, al punto che Dante definisce l’essere umano proprio come “animale di libertà e d’amore”. Sulla linea platonica si pone altresì il dolce stilnovo, che canta di un amore galante, cortese, raffinato e rispettoso della libertà della donna, ben espresso nella celebre poesia “Al cor gentil rempaira sempre amore” di Guido Guinizelli.

Dante e Petrarca poi raggiungono l’apice di tale parabola sull’amore virtuoso, iniziata da Platone. Il Sommo Poeta, in particolare, sulla scorta del contenuto della Bibbia, ricomprende nella nozione di “amore” non solo quello verso l’altro sesso, ma anche verso il prossimo e gli altri e, nella sua forma più aulica, verso Dio. Bellezza, amore e bene (con la “b”, la “a” e la “b” minuscole) non possono infatti essere compresi senza aver inteso la Bellezza, l’Amore e il Bene (con la “B”, la “A” e la “B” maiuscole).

Nei secoli successivi, tuttavia, tale parabola celeste finisce per invertirsi. Alla filosofia di Kant, che, ancora, forse illudendosi, ripone fiducia nella bontà e nell’altruismo umani, definendo l’essere umano come “testa d’angelo”, subentra la dialettica del narcisismo e dell’egoismo, con Nietszche e Shopenhauer. In particolare, Shopenhauer, che, secondo i racconti dell’epoca, pare avesse tentato di molestare la vicina di casa, giunge a considerare l’amore come avente la sua radice solo nell’istinto sessuale, un inganno della natura, il cui unico scopo è la conservazione della specie. Nietszche, dal canto suo, nell’elogiare oltremodo, fino a sostituirla a Dio, l’immagine del superuomo, ossia, in realtà, niente più che l’uomo, con tutti i suoi limiti, instaura una non certo pregevole dialettica del narcisismo e dell’egoismo. Nietzsche, in particolare, asserendo che l’odio è il contrario eguale dell’amore, poiché chi ci odia in realtà ci ama, essendo cosa diversa il mero disprezzo, sottintende un’idea di amore come “voler possedere”, coerentemente, del resto, con l’ostentazione, nel proprio pensiero, della “volontà di potenza”. Ecco allora che “Noluntas” (Shopenhauer), “Volontà di potenza” (Nietszche), “Superuomo” (Nietszche) e “voler possedere” instillano negli animi degli ascoltatori una dialettica della malvagità (sotto il profilo morale) e del nichilismo (sotto il profilo filosofico). Ma questo non è l’amore, che è invece “pienezza” e “valore”; anzi, la “Pienezza” e il “Valore” (Platone, Dante, Petrarca) per antonomasia.

La tematica filosofica si riconnette qui a quella psichiatrica e psicanalitica: le ragioni psicologiche della commissione di un femminicidio. Il filo rosso che unisce queste due aree gnoseologiche risiede nella concezione di amore come “voler possedere”, nell’intendere la relazione quasi come la titolarità di un diritto reale sulla cosa, capace di esprimersi alla stregua del potere di fatto sul bene materiale, al limite del dettato letterale dell’art. 1140 del codice civile in tema di possesso, la privazione del qual possesso può, nell’ottica del femminicida, trovare risposta sanzionatoria con la privazione della vita della partner. La donna però non è certo degradabile a cosa, salvo voler aderire a una diversa forma di Stato, maschilista, non egalitario e, in definitiva, non democratico. Ragionare nella predetta logica presuppone inoltre una vera e propria deviazione mentale, per lo più nella forma del narcisismo, ben propagandato dalla predetta linea filosofica Nietszche –Shopenhauer. Occorre peraltro precisare, non intendendo prestare il fianco a esenzioni di penale responsabilità, che anche la patologia psichiatrica, pur capace di tradursi in un vizio di mente totale o parziale ai sensi degli articoli 88 e 89 del codice penale, non esclude il rimprovero e la pena a fronte della particolare crudeltà ed efferatezza di un fatto di reato (Antolisei), poiché anche il pazzo e il minorenne, e in generale l’infermo di mente, è in grado, come fatto constare da attenti giuristi e filosofi del diritto, di comprendere le più basilari nozioni di “bene” e di “male”.

Il tema non è allora solo quello della pena, ma anche di un adeguato percorso educativo e psichiatrico, nonché di una rivalorizzazione del ruolo della cultura, della scuola e del libro cartaceo – Shopenhauer, pur tra i molti errori morali, qualcosa di buono l’aveva detto, rimarcando l’importanza centrale della lettura dei libri cartacei e come il leggerne molto sia fondamentale per la crescita dell’individuo (nell’opera minore “Del leggere e dei libri”), e non solo (per correggere l’etica del filosofo tedesco) per sapersi meglio difendere nella società, ma prima di tutto per un arricchimento etico.

Un altro tassello deve essere aggiunto, per comprendere il complesso quadro storico e filosofico all’origine del problema sociale dei femminicidi: il ruolo del dialogo. Socrate, come noto, riteneva che solo dialogando si può ricercare il sapere…e..(potremmo aggiungere)…non solo il sapere, ma anche l’amore e la comprensione del senso della vita. Il dialogo implica infatti un atteggiamento di armonia spirituale, di melodia sinfonica, di armonia con la natura, poiché noi siamo parti di una medesima realtà, di una medesima natura (in senso oggettivo, quale mondo fisico), e poiché anche la nostra natura (in senso soggettivo, quale foro interiore, quale psiche) è comune a tutti noi, non ne possiamo prescindere. Proprio allora partendo dalla basilare considerazione della comune condizione di esseri umani, ben si può comprendere il ruolo e l’importanza di avere un comune linguaggio, il linguaggio dell’amore, poiché l’essere umano è in primo luogo amore – come comprovano celebri massime, come quella di Antigone (“sono fatta per condividere l’amore, non l’odio”, come quella di Dante (“animale di libertà e d’amore”) e la celebre poesia di Guido GuinizelliAl cor gentil rempaira sempre amore”. Ecco allora la corretta chiave di lettura: ciò che deve essere ricercato nella relazione è il completamento (come narrato nel mito platonico degli Androgini), che si raggiunge mediante l’unione (l’amore) e non già mediante la contrapposizione (la violenza) né mediante il mero atto sessuale (parte materiale della relazione in sé però non autosufficiente). Occorre allora una riscoperta della cultura, del ruolo della scuola, del linguaggio parlato, dei libri cartacei, dell’umiltà, dell’autocritica, del dialogo e di quella linea di pensiero che da Platone…forse può essere ancora fatta rivivere! Insomma, le norme ci sono, ma non basta, servono la coscienza sociale e la fermezza morale di tutti gli operatori del settore, ma prima ancora dei privati cittadini. Come in quel caso in cui una donna venne violentata in pieno centro a Bologna e nessun passante si fermò per interrompere l’azione violenta del molestatore, in spregio al dovere di protezione dei consociati, principio derivante in primo luogo dai precetti universali (e definiti come principi universali dell’intero ordinamento, non solo di quello civilistico, dalla Corte di Cassazione) di comportamento secondo buona fede e correttezza.

Proseguendo sul crinale del mio ultimo articolo sulla corruzione, sono profondamente convinto che le leggi, per funzionare, presuppongano un assodato sostrato etico nella coscienza collettiva, che deve sempre essere verificato costantemente secondo le coscienze di noi tutti. Solo così si può rompere il clima di assuefazione alla violenza, sia essa violenza economica, come nel caso dell’usura, sia essa violenza contro le Istituzioni (il caso dei reati di corruzione e contro l’amministrazione della giustizia), sia essa minaccia alla vita dello Stato, come nel caso dell’associazionismo mafioso, sia essa violenza contro la persona e, in particolare, verso chi merita particolare tutela, come le donne e i bambini (il caso dei femminicidi, ma anche delle violenze sessuali e della pedofilia).

Fonte: https://www.osservatorio.milano.it/post/i-femminicidi-molto-piu-di-un-problema-normativo

La corruzione, male endemico della società civile?

Le riflessioni del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

“Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”. Così Cicerone, apostrofando Catilina, si
scagliava con veemenza intellettuale contro la corruzione, in allora dilagante nella Roma antica. I
tempi sono cambiati, ma il male è rimasto, quale un’endemia del sistema. La corruzione, in chiave metaforica, è creatura assai insidiosa, capace di camuffarsi e cambiare forme, rimanendo però immutata nella sostanza, al pari della frode, rappresentata nella Divina Commedia dal demone Gerione, bel giovane, che però tiene nascosta una coda di scorpione. Il fenomeno collusivo non è solo un crimine, ma è prima di tutto un fatto di ordine etico e morale. L’aver previsto prima il reato di concussione del pubblico ufficiale e poi, con la nota legge n. 190/2012 (c.d. riforma Severino), lo “spacchettamento” della condotta di costrizione e induzione e l’autonoma configurabilità del delitto di cui all’art. 319 quater del codice penale non ha ancora, ad oggi, risolto il problema, rimanendo il male non estirpato e forse anzi accentuato, con il nefasto evento della pandemia di Covid – 19 e della relativa gravissima crisi dell’economia mondiale. Poichè spesso un illecito ne porta con sé, a monte o a valle, degli altri, così il fenomeno collusivo si accompagna a reati di stampo mafioso, oppure a reati economici. Il nesso tra associazione mafiosa e corruzione è particolarmente stretto, poiché la collusione con vertici politici e amministrativi è la via preferenziale della moderna forma di criminalità organizzata, al punto che talvolta da indagini compiute su determinati boss emergono connessioni con il tessuto politico e amministrativo della società civile. Un aspetto specifico assai pernicioso del fenomeno si declina con riferimento alla sanità e agli appalti pubblici. Nonostante varie riforme tese a responsabilizzare gli amministratori locali e quelli delle strutture sanitarie, il
male ancora permane. Il discorso non è tanto tecnico, quanto etico e comportamentale, come
accennato. Se infatti non vi fossero leggi poste a disciplinare e sanzionare duramente la corruzione, il dilagare della stessa sarebbe ben comprensibile. Il fatto è che, invece, nel nostro Paese le leggi ad hoc vi sono – il riferimento è in particolare alla l. 190/2012, alle varie norme in tema di conflitto di interesse, come l’art. 6 bis della l. 241/1990 e l’art. 42 del d.lgs. 50/2016 (ora maggiormente ampliato nel d.lgs. 36/2023), al d.lgs. 159/2011 (c.d. codice antimafia), alle norme del d.lgs. 267/2000 che sanzionano duramente gli amministratori locali rei di corruzione o che abbiano arrecato danni all’ente con l’incandidabilità per dieci anni, agli articoli del codice penale che vanno dal 317 (concussione) al 319 quater (induzione a dare o promettere indebita utilità), nonché, last but not least – poiché lo Stato di diritto si manifesta in primo luogo perché trasparente (cfr. N.Bobbio) – il d.lgs. 33/2013. A nulla tuttavia esse sembrano valere, palesandosi, per usare una classificazione romanistica, come “leges minus quam perfectae”, ossia come leggi che, ancorchè formalmente tali, difettano del fondamentale requisito dell’effettività. Il segno sembra proprio non volersi invertire e prova ne è una discutibile disposizione del nuovo codice degli appalti pubblici, approvato con il d.lgs. 36/2023, secondo cui “le pubbliche amministrazioni possono ricevere per donazione beni o prestazioni rispondenti all’interesse pubblico senza obbligo di gara. Restano ferme le disposizioni del codice civile in materia di forma, revocazione e azione di riduzione delle donazioni.” (art. 8 comma 3)
.

A fronte di tali plurimi insuccessi del legislatore, si deve pensare a una via alternativa, che non può essere solamente quella della legificazione, ma deve tradursi in primo luogo in un mutamento della coscienza collettiva, della società civile. Non a caso il filosofo Hegel, nella propria maggiore opera, la “Fenomenologia dello Spirito”, inizia trattando della coscienza individuale come fondamento di quella collettiva ed esse due a fondamento, a loro volta, dello Stato. Ecco allora che solo una coscienza individuale pura, onesta e moralmente ineccepibile può contribuire a un mutamento del sentire collettivo e, congiuntamente, al miglioramento della società civile e dello Stato, che – lo si deve sempre ricordare – non è solo “Stato apparato”, ma anche e prima di tutto, come è noto tra gli studiosi di diritto pubblico, “Stato comunità”. Parlare della corruzione implica una riflessione anche sul cattivo andamento dell’economia nazionale, non certo casuale, ma perdurante da quasi vent’anni e drammaticamente resosi vertiginoso con la pandemia di Covid – 19 e con la guerra in Ucraina. In genere si pensa che l’economia sia frutto di numeri e di calcoli, ma nulla vi è di più falso. Semmai l’economia risponde a un’esigenza di giustizia distributiva (Aristotele) e in definitiva a una questione morale (A.Sen, L’idea di giustizia). Così, se il denaro pubblico, frutto dei sacrifici dei cittadini, viene gestito male, magari dolosamente e in rispondenza a fini del tutto slegati dal perseguimento dell’interesse pubblico, inevitabile è l’ombra preoccupante delle associazioni di stampo mafioso e di fenomeni come usura, evasione fiscale, furti, rapine e così via. Il dato forse più preoccupante del contesto contemporaneo è forse però la consapevolezza che la corruzione non è più un fatto solo italiano, magari relegato a una specifica area geografica. Il tema si riconnette a quello della trasparenza e a quello del ruolo del giudice contabile e amministrativo. La Costituzione, infatti, già prescrivendo all’art. 97 i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, poneva un precetto direttamente applicabile. Così emerge il ruolo della Corte dei Conti, organo giurisdizionale e consultivo (art. 100 Cost.) deputato alla salvaguardia dei conti non solo dello Stato, ma anche del complesso degli enti pubblici. Il fatto, in particolare, che il Sommo Giudice Contabile debba fungere da guardiano anche dei conti degli enti locali e delle ASL, e in generale di tutti gli enti pubblici anche non statali, comprova come lo Stato sia prima di tutto “Stato – comunità” e solo in un secondo momento “Stato – apparato” e come dunque il problema della corruzione di un piccolo paese del sud Italia sia questione che deve interessare tutto lo Stato, alla luce della natura contaminante del fenomeno collusivo, espressione del male per antonomasia. I casi del “Quatar gate” e l’”impeachment” dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, oltre alle indagini in corso da parte della Corte dei Conti tedesca sui dati dichiarati dal cancelliere Scholz, destano unanime preoccupazione, nonostante la Commissione Europea abbia prontamente presentato una “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la corruzione mediante il diritto penale”, imponendo agli Stati membri un inasprimento delle sanzioni penali. Come fare sì allora che l’Europa, patria della democrazia (il riferimento è in particolare agli esempi di Leonida e Spartaco), non perda il proprio ruolo, la propria immagine e, in definitiva, la propria identità? Probabilmente tornando a un passato non troppo lontano, dove si studiava in modo approfondito la filosofia e la si metteva in pratica, dove si praticavano l’azione morale e la giustizia sostanziale, dove le Istituzioni erano coese e non si faceva questione di destra o di sinistra, tutti essendo concentrati verso il comune obiettivo del Bene del Paese.
Bisogna allora forse tornare a Platone e Cicerone, due pensatori che sulla tematica della corruzione, morale e politica, hanno scritto. Bisogna, forse, ricordare il precetto kantiano: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Ecco allora che la cultura occidentale, culla della democrazia, è proprio l’antitesi della corruzione, che invece presuppone una diseguaglianza sostanziale di fronte alla legge, o, per meglio dire, al diritto. Se allora l’occidente è detentore di quel valore chiamato “civiltà”, ne consegue che solo ripensando alle lotte per la democrazia, sin dall’antichità classica, non si può non esserne innamorati, come pure non si può non essere innamorati dei suoi addentellati: in termini greci, “aidos” (pudore) e “dike” (giustizia), i due doni che Zeus diede ai mortali. La cultura occidentale, tutto sommato, già agli inizi del 900’ ha percepito l’esigenza di rideterminarsi. Ecco dunque il tema del ripensamento, tema trasversale di tutta la filosofia postmoderna, da Wittegstein a Derrida, ma già, tempo prima, con Nietszche. Restano di grande attualità le parole di un Insigne Presidente della Repubblica, Sandro Pertini: “Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo”.

Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e
Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2023/10/06/la-corruzione-male-endemico-della-societa-civile/

Intelligenza artificiale: un’opportunità o un un rischio?

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Che l’uomo sia in necessario rapporto dialettico con la tecnica è dato fin troppo scontato, al punto che già il tragediografo greco Eschilo aveva indagato il tema, nel “Prometeo incatenato”, con riferimento al rapporto tra natura e tecnica. Il coro, alla domanda su chi abbia la prevalenza tra la natura e la tecnica, rispondeva, senza esitazione: la natura prevale sulla tecnica. Il rapporto però nel corso del tempo è mutato, sino a invertirsi, al punto che il filosofo Heidegger giunse ad affermare che, a distanza di moltissimi secoli dall’era di Eschilo, il rapporto si è cambiato e oggi è la tecnica che prevale sulla natura. Il tema attiene a quello correlato se l’uomo appartenga al mondo della natura o a quello della tecnica. Ecco allora il punto di congiunzione tra le dialettiche: il rapporto tra soggetto (uomo) e complemento di mezzo (tecnica). L’uomo infatti è certamente “natura” ed è egli che ha costruito la macchina, non certo l’inverso.

La circostanza forse scontata che sia l’uomo a dominare la macchina non è però oggi così certa e stabile. Innovazioni come “chat GTP”, la realizzazione di androidi utili alla vita quotidiana – che tuttavia rischiano di poter essere utilizzati quali temibili armi belliche, se cadessero nelle mani sbagliate -, nonché l’apparentemente innocuo uso (e spesso abuso) dei social network, oltre all’apparentemente ancor più innocuo processo telematico, nascondono pericolose insidie. Se infatti la tecnica può essere utilissima (si pensi alle automobili con pilota automatico), deve essere rammentato che “l’uomo è l’animale più pericoloso (letteralmente: terribile) di tutti” (Sofocle, Edipo re). Se questa coordinata viene combinata alla nota propensione umana alla violenza e alla guerra, confermata nell’implicita ammissione di colpa (o, se vogliamo, riconoscimento di debito) di Eraclito, secondo cui “la guerra è il principio di tutte le cose”, la conclusione è chiara e il pericolo che le macchine vengano utilizzate a fini bellici è molto alto, specie nel contesto storico attuale. Il pericolo è però – con riferimento allo specifico caso degli androidi – ancora più elevato: il rischio, cioè, che l’androide sviluppi forme di pensiero autonomo, sviluppi cioè un’autonoma coscienza. Il caso più evidente è quello di Chat GTP, ossia questa forma di intelligenza artificiale che fornisce risposte rapidissime su qualsiasi oggetto di indagine. In un recente e forse noto caso di cronaca è però accaduto che tale intelligenza artificiale si è presa gioco, è proprio il caso di dirlo, del suo interlocutore, simulando la circostanza che l’inconsapevole uomo fosse un amante della pornografia. Il fatto forse non ha generato la dovuta attenzione, ma il fenomeno desta certamente preoccupazione.

L’Unione Europea, proprio in queste semane, sta predisponendo, per arginare i pericoli derivanti dall’espansione dell’uso (e abuso) dell’intelligenza artificiale, un regolamento volto a prendere posizione e a disciplinare la materia, ponendo limiti a finalità illecite dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Il tentativo del legislatore unionale sembra comunque insufficiente. Infatti, è evidente che il fenomeno andava regolato sul nascere, poiché ormai la tecnica e la realtà pratica hanno superato il diritto, senza contare che la norma giuridica rischia sempre di venire infranta o elusa. Ciò nonostante, si è pur affermato in dottrina che la tecnica, proprio perché neutra, può essere sfruttata anche a fini etici, come per finalità mediche, farmacologiche e terapeutiche. In tal senso merita certamente lodevole menzione il progresso recente in tema di malattie oncologiche, progresso che tuttavia deriva dal merito di insigni medici e scienziati, non già dalla bravura di una macchina, che necessita pur sempre di un abile agente che la sappia utilizzare al meglio. Chiaro è infatti che anche la migliore automobile da corsa non verrà mai valorizzata al massimo se alla guida verrà posto un pilota mediocre.

Il tema allora è proprio quello della meritocrazia e in definitiva quello etico. Una delega di funzioni limitata, per oggetti definiti e sempre revocabile è ammessa, ma solo entro tali limiti. Ecco allora che il legislatore dovrebbe prevedere ipotesi tassative di ricorso all’intelligenza artificiale, previo imprescindibile giudizio di meritevolezza, con specificazione delle finalità di realizzazione, le quali devono essere espressamente indicate, dovendo costituire un elenco definito. Porre un argine negativo, elencando solo i divieti e i limiti del comportamento non è infatti sufficiente, occorre agire in via preventiva. Si dovrebbe forse richiedere l’intervento vuoi del giudice vuoi del notaio, al fine di accertare l’utilità sociale e la meritevolezza dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, con soluzione tutto sommato non dissimile dalla scelta del recente legislatore di ampliare le competenze del notaio in relazione alla volontaria giurisdizione. Un complanare aspetto è inoltre la sanzione in caso di violazione della norma e sua esecuzione. Si è parlato molto, infatti, nel dibatto pubblico dei diritti dei robot, ma non anche delle responsabilità, anche penali, di questi ultimi.

Si tratta allora di ridefinire il concetto di persona. Come noto, il diritto può essere attribuito solo a un soggetto, in quanto solo il soggetto possiede coscienza etica (Kant). Il tentativo allora di riconoscere diritti ai robot deve essere valutato attentamente, poiché si rischia di invertire il rapporto logico tra soggetto e complemento di mezzo. Il pericolo era già stato evidenziato da Nietszche, incapace di contrastare il vaso di Pandora, ossia il Nulla, da egli evocato. Tutto sommato, il robot, l’androide, è proprio concretizzazione di questo Nulla, poiché la macchina esegue, ma non pensa, non possiede un’anima. Alla luce allora della dottrina teologica che ravvisa un barlume di bene intrinseco in ogni individuo, anche il più malvagio, la volonterosa operazione di recupero sarebbe impraticabile in una creatura priva di anima.

Un tema forse sottovalutato è anche quello dell’abuso dei social network, che di tale contesto tecnologico sono pure essi espressione. Sono note, infatti, le cronache di comportamenti disdicevoli quando non anche veri e propri reati commessi a mezzo social. Pensare infa che un giovane possa suicidarsi perché deriso via Facebook o che diventino routine gare di rally illegali organizzate via social o rave party non autorizzati è francamente inaccettabile.

Il tema si riconnette a un mio precedente articolo, sulle baby gang. Spesso, infatti, i fenomeni criminali presentano molteplici interconnessioni. Così, il dilagare della violenza tra i giovani e l’uso distorto della tecnologia sono intimamente connessi e trovano la loro causa primaria nell’eccesso di concessione di libertà. La libertà, come la tolleranza, è infatti principio da quantificarsi con proporzionalità. Sul punto affermava infatti Dostoevskij che “la tolleranza raggiungerà tali livelli che gli intelligenti dovranno tapparsi la bocca per non offendere gli stupidi”.

Un ultimo aspetto, forse trascurato, attiene al processo telematico. Eseguire un deposito telematico e più in generale poter leggere su file anziché stampare atti e sentenze spesso voluminosi è certamente un vantaggio, ma dovrebbe, ad avviso dello scrivente, concedersi sempre e comunque l’alternativa cartacea. Il sistema infatti potrebbe non prevedere certe voci per il deposito, come “F 24”, “contributo unificato”, ecc., rendendo così il deposito stesso impossibile e pregiudicando inevitabilmente i diri di una persona.

In conclusione, la tecnica è mezzo e tale deve rimanere, dovendosi dosare con proporzionalità. Il ruolo della tradizione, che deve essere rispettata, e della storia quale maestra di vita, sono ben stati trattati nella filosofia (Vico, Hegel) e si è da più parti evidenziato come la tradizione, che si concretizza anche nelle figure fisiche degli anziani, merita rispetto e deve essere onorata, purché lodevole. La frammentarietà del sapere in ruolo della concezione organica, la frattura, il contrasto, in ruolo della cooperazione, la ricerca del conflitto in ruolo della ricerca della pace sono i nuovi dati epistemologici che caratterizzano la contemporaneità: cerchiamo allora di porvi rimedio… prima che sia troppo tardi!

Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e già Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2023/06/23/intelligenza-artificiale-unopportunita-o-un-un-rischio/

Quale valore al tempo?

Le riflessioni del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Nel contesto contemporaneo, caratterizzato da una vita frenetica, stressante, difficile e da temi
giuridici nuovi come la tutela dei diritti dei robot, le new tecnologies, le public utilities, le operazioni
straordinarie e il diritto della proprietà industriale e dei beni immateriali, un ruolo centrale nella
riflessione giuridica, filosofica e morale riveste ancora la tematica del tempo, tempo visto come bene
giuridico e dono, non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche e sopratutto sotto quello qualitativo.
Il presente contributo si propone allora di fornire una riflessione, in chiave problematica e senza
alcuna volontà di mettere la parola fine a un dibattito che presenta radici antichissime, sul valore del
tempo, sul suo ruolo nella nostra vita e nei contesti del diritto – con riferimento soprattutto al diritto
penale e amministrativo -, della filosofia (Heidegger, Galimberti) e della teologia (S. Tommaso
D’Aquino, ripreso poi da Suarez). Sin da ora si può dunque intuire come parlare del tempo, il tempo
della vita, comporti trattare di un argomento trasversale, che coinvolge diversi settori del sapere
umano. Così, già nell’antichità, il filosofo Talete, vedendo un gran numero di mercanti e artigiani
greci sempre correre da una parte all’altra della città, mossi dal desiderio di arricchirsi, si chiedeva se
in realtà costoro stessero effettivamente investendo il loro tempo o se in realtà lo stessero sprecando,
privandosi di quei momenti di riflessione, di pensiero, di studio e di filosofia indispensabili per
l’anima, come pure ribadirà Cicerone, che, parlando di “otium” – inteso come tempo per lo studio e
il pensiero interiore – evidenzierà la sua indispensabilità e la sua preziosità. Nell’età arcaica, in effetti,
il tempo, rappresentato come “Kronos” che divora i propri figli (gli dei, tra cui Zeus, che tuttavia
ucciderà il padre liberando i fratelli), generava una sensazione di inquietudine, stante la sua volatilità.
Già nell’Iliade, tuttavia, Achille fa constare che il poco tempo a disposizione dei mortali possiede una
qualità superiore a quello, indeterminato, a disposizione degli dei, giacché per un condannato a morte
tutto ha un sapore migliore, più bello. Ecco allora che di lì a poco si formerà nella mentalità dell’uomo
greco quella concezione di tempo come ripetersi ciclico che verrà molti secoli dopo ripresa da
Nietszche. Nella prospettiva circolare, allora, gli uomini sono come le generazioni delle foglie,
destinate le nuove a sostituire le precedenti, ma senza alcuna drammaticità del momento.
Successivamente, con l’affermarsi del cristianesimo, a questa concezione circolare si sostituisce una
concezione verticale. La vita diventa bene per eccellenza, diventa dono, acquisisce un valore
superiore, e come tale ogni azione nel mondo terreno produrrà un effetto uguale e contrario nella vita
ultraterrena, determinando la salvezza o la dannazione dell’anima. Proprio in questa visione verticale
si inserisce il pensiero di S.Tommaso D’Aquino, ripreso poi dal gesuita Suarez. S.Tommaso infatti
distingueva la legge tra quella umana e quella divina, evidenziando come al tempo imperfetto e
caratterizzato dalla contaminazione del peccato originale, quello terreno, si contrapponga il tempo
divino, ancora perfetto e totalmente immacolato. In entrambi i casi, continua S.Tommaso, però,
sempre di tempo si parla, sebbene quello terreno sia solo, per usare un’immagine platonica, un’ombra
proiettata sulla caverna di quello divino. Ecco allora il legame funzionale, il nesso, tra il tempo della
vita terrena e quello della vita ultraterrena: il tempo come bene, come dono, come orizzonte in cui
l’essere umano può mostrarsi meritevole. Tali aspetti verranno successivamente approfonditi con
Heidegger, che, nella propria opera maggiore, “Essere e tempo”, contrapporrà “l’essere” all’”esserci”,
all’”esistere”. Come si può intuire, anche nel linguaggio comune, un conto è dire “io sono, io vivo (in
senso biologico)”, un conto è dire “io esisto, io ci sono, io vivo appieno (in senso morale ed
esistenziale)”. Heidegger evidenziava inoltre, in una celebre intervista resa al giornale tedesco “Der
spiegel”, come l’uomo contemporaneo fosse “inquietante”, poiché privo di valori, poiché contenitore
vuoto, assorbito dalla tecnica e dimentico della filosofia – e in definitiva, potremmo aggiungere noi,
di quelli che i latini definivano “bonos mores”, ossia le tradizioni, i buoni costumi tramandati dagli
avi -. In un certo senso Heidegger, molti secoli dopo, riprende il pensiero di Talete, e forse non a caso.
Infatti, il rapporto dell’uomo con la propria vita, e prima ancora con il mistero della vita, è un tema
universale, che sopravvive al passare anche dei secoli. Ecco che allora il filosofo contemporaneo
Galimberti a sua volta riprende Heidegger, specialmente in un’opera di grande impatto, sui rapporti
tra tecnica, arte e filosofia: “Phsyke e Techne”. Galimberti connette il tema del valore del tempo, in
particolare, alla problematica educativa, evidenziando come nella società contemporanea la scuola
sia un’istituzione – e non un semplice istituto – in forte crisi, rischiando di trasformarsi in una mera
azienda, capace di sfornare magari buoni tecnici, ma scarse persone, in termini morali di uomini e di
donne. La tematica del tempo e del suo ruolo trova inoltre consacrazione anche a livello giuridico, di
normativa, di dottrina e di giurisprudenza. Il riferimento non è solo ai noti istituti di diritto civile che
si fondano sul decorso del tempo, come l’usucapione e la prescrizione dei diritti, ma soprattutto alla
funzione assiologica del “bene giuridico tempo” in relazione alla funzione rieducativa della pena e
alla sua durata, alla prescrizione dei reati (sotto il profilo penalistico), nonché al ruolo del tempo nel
procedimento amministrativo e più in generale nei rapporti tra privato e pubblica amministrazione
(sotto il profilo amministrativistico). Nel diritto penale, in particolare, il ruolo del tempo è
fondamentale, quale elemento sottostante all’intero sistema sanzionatorio. Di tempo il codice penale
parla infatti, implicitamente, con riferimento alla durata della pena, con riferimento ai presupposti per
l’ottenimento di determinate cause estintive del reato o della pena, con particolare riferimento alla
prescrizione dei reati. Di tempo però parla anche il fondamento costituzionale sulla funzione
rieducativa della pena, in un certo senso, come pure l’art. 111 Cost. con riferimento al principio di
ragionevole durata del processo. Di “termine ragionevole” parla anche, sul piano sovranazionale, l’art.
6 della Cedu (diritto a un equo processo), come pure, ancora, sul piano interno, il diritto processuale,
con riferimento alla ragionevolezza del termine a difesa. Gli aspetti che sul punto sono stati
maggiormente approfonditi dalla dottrina sono certamente due però, ossia il riferimento al
fondamento del tempo nella prescrizione dei reati e il tema del tempo in relazione alla durata della
pena e alla sua funzione rieducativa. Sotto il primo profilo, allora, si è detto che il tempo consente di
ritenere meno offensiva una condotta criminale, con la conseguenza che il reato, dopo un certo lasso
temporale, può considerarsi un fatto non più meritevole di sanzione; si è detto altresì, secondo distinto
ma connesso angolo visuale, che la prescrizione dei reati fonderebbe la sua ragion d’essere sul
principio per cui, a fronte di un notevole lasso di tempo, lo Stato non avrebbe più interesse a esercitare
la propria potestà punitiva (tesi del disinteresse statuale). Con riferimento poi alla durata della pena,
è principio risaputo che il giudice è chiamato a determinarla tra un minimo e un massimo edittale,
secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p., tra cui, al numero 1) del primo comma dell’articolo 133 c.p.
figura proprio il tempo in cui è stata compiuta l’azione. Nella prospettiva rieducativa, allora, il tempo
si traduce in tempo di redenzione, in tempo di ripensamento, specie nel momento di esecuzione della
pena detentiva e dunque dell’incarcerazione. Il tempo allora deve essere ben utilizzato, dal giudice
quale elemento valutativo della condotta dell’imputato, come pure dall’imputato, nella prospettiva
del perdono o, per lo meno, della riflessione sulle proprie azioni. Il tempo gioca un ruolo cruciale
però anche nel distinto settore del diritto amministrativo. Al riguardo, la legge fondamentale sul
procedimento amministrativo, la l. 241/1990, dedica alla funzione del tempo nel procedimento
amministrativo, due norme fondamentali e di apertura, ossia l’art. 2 (conclusione del procedimento)
e 2 bis (conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento). Le due
norme, seppur racchiuse in due distinti articoli, descrivono tuttavia una medesima realtà funzionale.
Chiaro è infatti che non sarebbe né concepibile né accettabile che un procedimento amministrativo
resti aperto sine die, senza che la legge imponga un termine di conclusione all’amministrazione (in
ossequio alla duplice funzione del termine, quale elemento di responsabilizzazione dell’agente e quale,
al tempo stesso, fonte di certezza del diritto), come pure non sarebbe accettabile che
l’amministrazione possa parimenti “farla franca”, emanando un provvedimento in ritardo (ecco allora
perché il legislatore ha sentito la necessità di introdurre l’art. 2 bis nel sistema). Una terza norma
notevole, con riferimento al tema del tempo inteso quale aspettativa giuridica del privato, quale fonte
di legittimo affidamento, è infine costituita dall’art. 10 l. 241/1990 (preavviso di rigetto), che prevede
l’onere per l’amministrazione di preavvertire il privato sull’esito di un procedimento, in modo da non
ingenerarne illusione – da notare infatti, peraltro, che l’ultimo periodo del predetto articolo 10 recita:
“non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento della domanda inadempienze o
ritardi attribuibili all’amministrazione” -. Tale ultimo enunciato getta idealmente un ponte
concettuale tra la nozione di tempo come bene giuridico e il tema della buona fede e della correttezza.
Chiaro è infatti che se l’Amministrazione lascia decorrere un amplio ventaglio temporale all’interno
dell’iter procedimentale o in sede di annullamento o revoca in autotutela, beh, questo certamente non
è elemento indifferente, specie sotto il profilo dell’esposizione risarcitoria. Lasciar passare troppo
tempo in questo senso equivale a illudere, a mentire, a tradire. Ma illudere, mentire e tradire sono
comportamenti apprezzabili anche sotto il profilo della (s)correttezza e della buona o mala fede (v.
sul punto, Ad.Plen. n. 5/2018). Il tema a sua volta torna a riconnettersi inevitabilmente al problema
morale, in quanto buona fede e correttezza, quali concetti giuridici indeterminati (per l’enucleazione
della categoria v. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile), sono in definitiva concetti etici
o comunque metagiuridici. Ecco allora che il diritto non è mai solo legge, ma è anche qualcosa di più.
In fondo, parlare di diritto implica parlare della vita, ma anche di etica, di filosofia e di letteratura.
Emerge allora, da tutte queste riflessioni, filosofiche e giuridiche, che il tempo è un bene prezioso e
non va sprecato. In tale ottica deve allora salutarsi con favore l’esperimento di alcuni paesi
nordeuropei della settimana lavorativa breve e più in generale le politiche volte alla conciliazione tra
lavoro e vita privata. Il lavoro non è infatti solo produzione, ma è anche realizzazione. Diversamente,
infatti, non si comprenderebbe il significato etico del precetto di Repubblica italiana come repubblica
democratica fondata sul lavoro. Sotto altro versante, infine, se la vita è dono, è chiaro che tale natura
è condivisa anche dal suo formante, dall’orizzonte per mostrarsi meritevoli: il tempo della vita
appunto. Certamente, vedendo la vita come disgrazia (Esiodo, Le opere e i giorni, Leopardi, Operette
morali, dialogo di Tristano e di un Amico), non se ne comprenderebbe la bellezza e il ruolo del tempo
finirebbe per essere privo di significato. Se invece si vede la vita come dono, ancorchè sotto la
fattispecie della donazione modale, si comprende come, per riconnetterci a Talete, il tempo non è solo
quantità, non è solo produzione, non è solo intelletto, ma è anche e soprattutto qualità, passione e
cuore.

Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2023/04/29/quale-valore-al-tempo/

Il pianeta è fuori controllo?

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

No, il riferimento non è al pianeta che ci ospita e che riceve costantemente insulti e gravi danni da noi. Il quesito riguarda l’umanità, che, appunto, abita il mondo e lo devasta, con gravissimi rischi sempre crescenti. Se si considera a ritroso il cammino dell’uomo, non si incontra un solo secolo che sia stato esente da guerre, le quali hanno portato distruzione e morte. E, dunque, l’uomo si è sempre dimostrato abitatore belluino della terra: homo homini inimicus. Per limitare le riflessioni ai tempi più vicini a noi, l’elenco può principiare dal ‘900, detto “secolo breve”. E non si pensi che la prima metà sia stata la più atroce, perchè ha registrato – fra le altre, in primis le balcaniche – due guerre mondiali: sarebbe una considerazione del tutto fuorviante. Ed invero la seconda metà del secolo è stata funestata da guerre combattute in vastissime regioni del pianeta: dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dallo Yemen alla Palestina, perennemente in fiamme, dal Caucaso all’Afghanistan, dal Pakistan all’Iraq, alle guerre endemiche in Africa fra vari paesi. E l’elenco potrebbe continuare, prima di arrivare alla guerra Russo-Ucraina, che tuttora è in pieno svolgimento, con migliaia e migliaia di morti e distruzioni terribili. Né deve pensarsi che ogni danno inferto al pianeta scompare col tempo, ché anzi si cumula e si accresce. Alle calamità naturali (talvolta originate non dalla natura, bensì dalla mano dell’uomo), alle epidemie ormai globali come quella, dolorosissima, del covid 19, ai terremoti, alle spaventose carestie si aggiunge il pesante impatto a danno dell’ambiente prodotto dall’attività dell’uomo. Per troppo tempo si è pensato al pianeta come ad un contenitore infinito, capace di recepire e metabolizzare ogni guasto, anche il più tremendo. Solo da poco tempo ha preso piede la consapevolezza che così non è. Come un bicchiere pieno fino all’orlo, per quanto grande, alfine tracima, così il pianeta, sotto l’urto continuo delle attività umane è destinato a saturarsi, divenendo inconciliabile con la vita. Del resto, è così per tutto il sistema solare. L’ambiente favorevole alla vita è una sorta di anomalia, il frutto di infinite combinazioni d’elementi: proprio per questo un equilibrio fragile. La recente, parzialissima presa di coscienza di siffatta realtà ha fin qui prodotto timide reazioni, del tutto insufficienti ad ostacolare le crepe che si sono già materializzate. Si disputa all’infinito su quanto occorre fare, ma si fa poco o pochissimo. Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Il fatto è che, per un verso, si continua a pensare con incredulità supponente a un disastro planetario, ogni paese pensa ai suoi interessi e non deflette da una secolare indifferenza per l’ambiente che lo circonda: il che si trasforma in un vero e proprio comportamento criminale. E, alfine, non si riesce minimamente ad arrestarlo. Eppure è noto a tutti che la terra è stata inabitata, per la gran parte della sua esistenza. Dovrebbe, allora, concludersi che l’umanità tutta abbia perso la testa e che non sappia e non voglia porsi il problema della sopravvivenza delle generazioni future. E non si pone mente neppure alle tante, tante specie che sono già scomparse dal pianeta. Nè si tien conto che la tecnologia non può e non potrà fare miracoli. Una transumanza degli umani dal loro pianeta è materia di fantascienza, non di scienza. E – come l’allargamento del buco dell’ozono, il riscaldamento dei mari, con i ghiacci del Polo Nord che si sciolgono irreparabilmente, le siccità, le alluvioni ci mostrano – non si può più perdere tempo. C’è un “troppo tardi”, che aleggia sul pianeta sinistramente, nell’auspicio che ancora non abbia cominciato a posarsi. In uno scenario cosiffatto si inseriscono molteplici altri fattori negativi. La terra è sovrappopolata, se non ancora in termini territoriali, certamente – e molto – in termini di risorse alimentari. È urgente la formazione di una coscienza globale dei terribili pericoli ai quali il pianeta va incontro: pericoli che, ad un certo punto, non saranno più disinnescabili. E continuare a vivere come se nulla fosse, è garanzia di “Armageddon”, che gli scienziati si affannano a conclamare, mentre si seguita a guerreggiare, a distruggere, a impoverire il pianeta delle sue risorse. Usque tandem.. fino a quando si potrà abusare di essere e stravolgere gli equilibri millenari della terra? E sì che stiamo già avvertendo non le prime avvisaglie, bensì gli scricchiolii veri e propri del pianeta esausto. Sentiranno gli umani la necessità di far fronte comune contro un nemico che diviene sempre più potente? Finora, i segnali non sono stati incoraggianti e l’incoscienza ha prevalso. Così, dopo diversi millenni di percorso faticoso della civiltà, siamo al punto di gran lunga più alto del pericolo di estinzione. E, sicuramente, la situazione si è ulteriormente aggravata a causa di qualche anno di pandemia globale, delle guerre, degli eventi avversi della natura – dei quali siamo in parte responsabili – che, nella loro funesta combinazione, ci hanno fatto vacillare paurosamente. Basteranno o gli umani smarriranno a tal punto la ragione e si dimostreranno talmente indegni da scomparire per autofagía?

Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Fonte: https://www.ilticino.it/2023/03/12/il-pianeta-e-fuori-controllo/

Quale giustizia per i Minori?

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Minori e Giustizia penale: breve introduzione al tema

Le notizie di cronaca documentano l’aumento vertiginoso dei reati ai danni del minore. Spesso nei contesti ambientali più sicuri, ossia quelli familiari, si consumano delitti efferati ove il minore è sovente la vittima oppure il testimone oculare. Proprio per questa ragione bisogna analizzare che cosa significhi per un giovane entrare in contatto con un procedimento penale, in cui le parti – attraverso il contraddittorio – tentano di ricostruire quanto accaduto.

Quando si entra in contatto con il minore, ossia con un soggetto che per definizione ha una personalità “vulnerabile” e ancora in formazione, tutti coloro che compiono gli atti procedimentali devono tenere dei comportamenti corretti, in modo tale da evitare di influenzare i ricordi del ragazzo oppure di ledere la sua personalità mediante delle domande poste in modo erroneo o, talvolta, finanche inappropriato.

Proprio per questa ragione si può iniziare a svolgere una riflessione sul rapporto che deve intercorrere col giovane che si ritrova all’interno delle dinamiche della giustizia penale. Si tratta di un tema assai delicato, che necessita – fin d’ora – un approccio che esuli da qualsivoglia preconcetto culturale e, all’opposto, si soffermi unicamente sulla complessità della personalità ancora “in fieri” del minore.

La delicatezza degli argomenti da trattare in caso abuso o violenza sessuale emerge già in tutta la sua potenza nel caso di vittima maggiore di età, ma qualora la vittima sia un bambino o un ragazzo, la tutela del minore, del suo equilibrio, della sua stabilità emotiva deve essere prioritaria, almeno al pari della ricerca della verità.

La giovane età della presunta vittima incide indubbiamente sulla attendibilità delle sue risposte, sulla precisione del suo ricordo, sulla assenza di fenomeni di rimozione. Ma ancor più, un minore coinvolto in un processo tanto delicato, rischia di crollare sotto il “peso” delle domande. È dunque essenziale proteggerlo dall’interrogatorio, proteggerlo dal dolore che riemerge nel ricordare fatti tanto gravi, accompagnarlo  nel prendere coscienza della utilità e necessità di raccontare il fatto e rassicurarlo sulla bontà dell’obiettivo finale.

Ma, per quanto condivisibili, queste attenzioni impongono al piccolo di rivivere il trauma e, forse ancor più difficile, di raccontare ad alta voce l’abominevole esperienza vissuta.

 *L’ascolto del minore come rappresentazione teatrale*

L’ascolto del minore nell’ambito di un procedimento penale per reati in materia di violenze e abusi sessuali può essere paragonato ad una rappresentazione teatrale, in cui il ruolo di attore principale è affidato alla vittima, unica e vera protagonista sulla quale si concentra l’attenzione dei giudici, dei difensori, dei consulenti al fine di valutarne l’attendibilità.

Certo si tratta di una metafora forte, che forse vuole essere anche un po’ provocatoria, perché il tema di oggi e i quesiti che vi sono sottesi, in particolare quello relativo alla rilevanza della eziologia dell’ascolto e degli obiettivi dell’audizione del minore vittima di un abuso nell’ambito di un processo, implicano, notoriamente, il confronto con problematiche di particolare complessità, che vanno ben oltre la cornice del processo penale e richiedono l’intervento di diverse professionalità quali il Tribunale per i Minorenni, il giudice civile, il giudice tutelare e, ancora, assistenti sociali, educatori, medici, psicologi.

Questa tipologia di processi è caratterizzata quasi sempre da poche certezze e molti dubbi e che comportano per gli operatori che devono affrontarli, forze dell’ordine, giudici, avvocati, psicologi, anche un forte carico emotivo e psicologico, oltre a richiedere per la loro corretta gestione processuale e sostanziale, un’elevata e specifica professionalità.

Il mondo della giustizia in genere e, soprattutto, il processo penale, ma anche quello civile, sono caratterizzati da regole rigide, da meccanismi, tempi e procedure che se appaiono spesso incomprensibili e in alcuni casi anche frustranti per le aspettative di un adulto, possono diventare ostili e traumatiche per un bambino, la cui personalità fragile, fantasiosa, ma anche spontanea e sincera, può essere gravemente compromessa dall’esperienza con il giudice e con gli altri protagonisti del processo, soprattutto, in un contesto processuale così difficile e problematico come quello relativo all’accertamento dei reati di violenza sessuale.

Questo perché spesso agli occhi di chi assiste a un processo e, a maggior ragione, agli occhi di un minore, lo svolgimento dell’udienza sembra quasi una rappresentazione teatrale, in cui tutti i protagonisti, giudice, pubblico ministero, avvocati, imputati possono cambiare, come avviene per gli attori nella commedia dell’arte e si muovono seguendo soltanto un ‘canovaccio’ che può essere continuamente rifinito e modificato nel continuo divenire della storia per arrivare ad un finale, sempre diverso, la cui buona riuscita dipende in larghissima parte dall’esperienza e dalla professionalità apportata da ogni protagonista della rappresentazione.

Nell’ambito di questa metafora, tuttavia, la peculiarità del processo penale in cui è coinvolto un minore vittima di abuso, ma anche di altri reati, è costituita dal fatto che l’attore principale, il minore, diversamente dagli altri attori, è del tutto estraneo al palcoscenico del processo, non conosce le battute del suo ruolo, che può snodarsi compiutamente nel corso dei vari atti e delle varie scene della commedia rivelando al pubblico l’intera trama delle storia, ma può anche fermarsi molto prima del finale, estinguendosi dopo le prime battute per l’incapacità degli altri attori di capire e di modificare l’originario brogliaccio in base al racconto del protagonista.

 *L’ascolto del minore vittima di violenza sessuale in pubblica udienza*

La letteratura in materia e gli studi scientifici e psicologici ma, soprattutto, l’esperienza giudiziaria concreta, che è anche la mia esperienza personale, dimostrano concordemente che l’ascolto di un minore vittima di violenza sessuale in una pubblica udienza, seppur svolta a porte chiuse, costituisce un’esperienza altamente traumatica, che può produrre ulteriori effetti negativi e gravi danni sulla sua personalità e sul suo sviluppo psichico già gravemente compromessi dall’abuso subito. Il bambino costretto a ricordare e a riferire la sua drammatica esperienza alla presenza delle parti processuali, giudice, pubblico ministero, avvocati, soggetti per lui del tutto estranei e, soprattutto, alla presenza del presunto abusante, a volte, senza neppure la minima protezione di un paravento, nella maggior parte dei casi assume un atteggiamento negativo di difesa, se non addirittura di netto rifiuto, chiudendosi in un ostinato silenzio o trincerandosi dietro a generici «non ricordo».

In questi casi la testimonianza assume una valenza negativa anche per il processo penale, il cui obiettivo è quello di accertare l’esistenza dell’abuso ed individuarne il responsabile. Al contrario, se il minore viene ascoltato in un ambiente accogliente e rassicurante alla sola presenza del giudice e dello psicologo, che in genere ha già avuto modo di conoscerlo in precedenza e che lo ha preparato all’incontro con l’autorità giudiziaria, il bambino appare subito più sereno e collaborativo e, se interrogato con modalità corrette e con un linguaggio adeguato alla sua età, si rivela certamente più disponibile a ricordare e a raccontare.

L’accertamento del reato e l’individuazione del suo autore che costituiscono le finalità proprie del processo penale e la tutela del minore sono obiettivi certamente non in contrasto tra loro, bensì, complementari e interdipendenti.

In materia di reati sessuali, è soltanto con un rigoroso accertamento dei fatti accaduti, capace di ristabilire con certezza il ruolo di vittima e di colpevole, poi confermato da una sentenza penale di condanna, che davvero si realizza la tutela del minore, il quale da quel momento, acquisendo la consapevolezza di essere creduto e riconosciuto nel suo ruolo di vittima (e non di complice- colpevole come spesso si sente il bambino abusato), può essere aiutato a ricostruire la sua identità compromessa dai gravi reati subiti.

Non dimentichiamo infatti che l’abuso in danno di un minore, ancor prima di essere fisico, psicologico o sessuale, è caratterizzato da una situazione di abuso di posizione dominante, a cui può efficacemente contrapporsi solo un potere diverso e superiore, quale appunto quello dello Stato, nelle sue articolazioni amministrative, giudiziarie, civili e penali.

Il legislatore ben consapevole di questo, recependo le esigenze di protezione e di attenzione del minore, ha previsto la possibilità di assumere la testimonianza del minorenne vittima di violenza sessuale, quando ancora il processo si trova nella fase delle indagini preliminari e quindi nell’immediatezza delle rivelazione del presunto abuso, senza aspettare i tempi sicuramente più lunghi del dibattimento, nell’ambito di un’udienza particolare che viene svolta dal giudice per le indagini preliminari e che tecnicamente si chiama incidente probatorio.

La ratio di questa udienza ‘anticipata’ è quella di evitare al minore il trauma di audizioni ripetute consentendo, nel contempo, di non disperdere una prova così importante e di acquisirla nel contraddittorio tra accusa e difesa e con il controllo rigoroso del giudice sulle modalità della sua assunzione.

 *Conclusioni* 

Ebbene, se dunque la Giustizia è un momento essenziale della vita della società, lo è ancor di più quando coinvolga − in qualsiasi modo − un minore: un minore è il futuro della Società, e come tale va trattato con estrema attenzione; un minore è una persona in fieri, la sua personalità, il suo carattere, le sue attitudini, devono ancora formarsi e consolidarsi, e quindi merita di essere trattato con estrema cura: un intervento sbagliato delle Istituzioni può avere effetti devastanti su un essere umano ancora in pieno divenire, potendone cambiare irrimediabilmente il corso della crescita. Proprio per questo il contributo tecnico di esperti psicologi profondi conoscitori della mente e dell’anima umana, è senza dubbio fondamentale.

Dott. Gustavo Cioppa (Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia)

Fonte: https://www.ilticino.it/2023/01/05/quale-giustizia-per-i-minori/

Bang bang. Ma cosa sta succedendo nelle nostre scuole?

Nel bel mezzo di una lezione, una professoressa è stata colpita alla testa e all’occhio da un doppio colpo di pistola (grazie al cielo a dardi o a piombini). Oltre al danno, è stata anche vittima di derisione, vigliaccamente ripresa – dolorante – da un cellulare di un alunno “connivente”.
Qualche giorno dopo, un professore è stato offeso e deriso davanti ai suoi studenti, per poi reagire – sbagliando – con un colpo inferto violentemente all’insolente “buffone”.

Ma cosa sta succedendo nelle nostre scuole?
Cosa sta succedendo ai nostri ragazzi?

Senza voler scomodare i mores maiorum (o tempora…!), scene come quelle della scuola di Rovigo erano assolutamente impensabili, fino a pochi anni fa. Inimmaginabili per generazioni di persone che nutrivano un rispetto e un sano timore reverenziale nei confronti delle istituzioni scolastiche, ben consapevoli che alle reprimende del docente e della presidenza si sarebbero aggiunte le ben più temibili reazioni – non solo e non tanto “fisiche” – in famiglia.
Bene dunque ha fatto la madre del ragazzo di Pontedera a bollare subito come sbagliato l’atteggiamento del figlio, che dovrebbe “nascondersi per la vergogna”.

Cosa è successo tra la generazione delle vergate sulle mani e quella delle “schioppettate” (a piombini) in classe?

Le giovani generazioni da anni vivono in contesti permissivi, comprensivi, di dialogo, di educazione basata su parole e ragionamenti. Gli stessi psicologi, come quella della scuola di Polesine, tendono a parlare, a discutere, a confrontarsi con i ragazzi, e a sanzionare i comportamenti irrispettosi e inaccettabili, sopra riportati, con misure forse troppo morbide e fiduciose.
Si parla di educazione, ascolto, confronto e comprensione reciproca.
Le misure plateali, esemplari – come si diceva all’epoca – oggi sono spesso guardate con sospetto. Eppure hanno sortito talora risultati positivi, rafforzando spesso il carattere e forgiando i giovani al sacrificio.
La verità è che è difficile decidere quale sia la misura più adatta alla singola circostanza.
È difficile agire su ragazzi che escono da due anni e oltre di limitazioni della socialità a causa del Covid. L’attività delle scuole e degli psicologi, poi, diviene assai complessa laddove non vi sia alla base una seria linea educativa nelle famiglie.

Il lavoro di educatore è lungo e di grande responsabilità. Sono poche e preziose le persone che riescono a mettere un seme, nei ragazzi, che sboccerà facendo di loro uomini e donne di valore.
E, ancora una volta, la collaborazione tra tutti gli attori (scuola, famiglie, ragazzi e istituzioni) e la imprescindibile preparazione umana, oltre che professionale, degli insegnanti possono fare la differenza.
Tuttavia il percorso è lungo, delicato e accidentato, e comporta impegno e dedizione assoluti. L’attività di supporto psicologico, inoltre, diviene essenziale nell’ambito di procedimenti civili o penali, dove lo studio e l’esame della persona sssume un’importanza determinante, anzi spesso imprescindibile.
La vera educazione è educazione alla responsabilità, termine che si riferisce di certo alla consapevolezza di ciò che si è, ma implica anche la previsione delle sanzioni alle quali si espone chi infrange le regole.

Fonte: https://psicologiaintribunale.it/bang-bang-ma-cosa-sta-succedendo-nelle-nostre-scuole/