Di punto in bianco siamo piombati in un incubo, che mai avremmo immaginato:
bollettini di contagiati e di morti a ritmo quotidiano, scenari spettrali di città deserte, stravolgimento della vita di ciascuno.
È l’esempio di come da un microscopico battito di ciglio della natura possa derivare una tragedia sconvolgente per gli umani, a livello planetario.
La paura diventa palpabile, diffusa, talvolta addirittura miserabile.
È una storia antica, tante volte ripetutasi nel cammino dell’umanità, ogni volta
capace di suscitare terribile angoscia, incredulo smarrimento, sgomento mortale, che crescono senza posa.
Apprestandosi a qualche riflessione, non vale ripetere, per l’ennesima volta, le regole di condotta necessaria e le esortazioni che piovono, con implacabile
continuità, da tutte le parti.
Men che meno pare utile dare
eco alle evocazioni fideistiche, messianiche, salvifiche.
C’è, piuttosto, un elemento che merita riflessione ed è l’esigenza di isolamento come massimo rimedio per opporsi al contagio. Così, in tempi di globalizzazione indiscussa, la distanza fisica fra ciascuno si presenta come ancora di salvezza: quale ineffabile contrappasso!
E, tuttavia, l’isolamento di ciascuno non deve estraniare, ma farsi strumento della salvezza di tutti: un isolamento che non separa, ma unisce. Non è un paradosso, bensì un distillato di ragione. E, al di là della sua valenza conclamata dalla scienza medica, vi è qualcosa di grandioso sotto il profilo metafisico.
L’uomo può riscattarsi dalle tante meschinerie che troppo spesso produce, cogliendo un’occasione epocale, che coinvolge il mondo intero:
saper isolarsi per unirsi allo sforzo collettivo di tutti verso la salvezza: e ciò, in un empito – oseremmo sperare – di solidarietà della specie in luogo del consueto egoismo.
Gustavo Cioppa