Papa Francesco: l’ultimo profeta della solidarietà in un tempo buio – 21/04/2025 – Osservatorio Metropolitano di Milano

Oggi, 21 aprile 2025, è morto Papa Francesco, all’età di 88 anni. Il dolore nella comunità è grande, perché sembra essersi spenta la luce della speranza, quell’anelito di solidarietà, altruismo e bontà umana allo stato puro, che, in un momento storico particolarmente complesso, ha costituito un barlume di speranza, soprattutto nella prospettiva della cessazione delle ostilità in varie parti del mondo. Il messaggio comunicativo più importante di Papa Francesco è stato infatti probabilmente questo: la chiamata verso noi tutti a farci manifestazione di solidarietà e altruismo nei rapporti umani, l’impegno cristiano da vivere non solo e non tanto sul piano teorico, quanto piuttosto su quello pratico, dimostrandosi cristiani nel concreto.

Papa Francesco è certamente stato un Pontefice dalla grande umanità, che ha più volte riaffermato l’importanza centrale del principio di uguaglianza e il dovere della comunità cristiana di allargarsi verso l’inclusione di nuove persone, di nuove categorie, per allargare spiritualmente e concretamente la visione dell’essere umano singolo e, di conseguenza, all’intera comunione umana e mostrandosi particolarmente, e giustamente, duro sulla piaga della pedofilia. Papa Francesco probabilmente mutua questo suo genuino, sincero e autentico modo d’essere dalle sue origini, nato e cresciuto nelle “favelas” argentine, in condizione di estrema povertà. Di qui la scelta del nome “Francesco”, da San Francesco, Santo dalla grande umiltà e umanità, solidale con i poveri, spogliatosi di ogni ricchezza, perché mosso da una mai cedevole fede e chiamata all’aiuto verso il prossimo.

Chi è il “prossimo”? È interessante notare come questa nozione non sia esclusivamente teologica. Essa infatti è anche una nozione giuridica, perché il prossimo, il vicino, nel diritto amministrativo, ha interesse ad impugnare il provvedimento e l’ordinamento gli riconosce dunque una piena tutela giuridica, prossimo è l’amico stretto o il familiare della persona offesa da un reato o da un illecito civile, cui spetta il risarcimento del danno. Prossimi sono però, soprattutto, i consociati dell’unico Stato-comunità, verso cui dobbiamo porre in essere quegli inderogabili doveri di solidarietà umana di cui fa parola l’articolo 2 della Costituzione.

Ecco allora che potenti risuonano le parole del Cristo: “ciò che avrete fatto a uno dei miei fratelli, lo avrete fatto a me”. Cristo insisteva inoltre su questo: che non è sufficiente conoscere le leggi, come fanno gli scribi e i farisei, se non si mostra umanità e solidarietà verso i propri fratelli e se quelle leggi non vengono applicate con i medesimi sentimenti. Non è un caso se più volte Papa Francesco, nelle proprie omelie, ha ripreso la parabola degli scribi e dei farisei, puntualizzando che per essere dei buoni fedeli, ma anche dei buoni cittadini, è doveroso in primo luogo dimostrare la cristianità e cioè quell’etica universale di cui tutti siamo chiamati a costituire manifestazione e a darne costante testimonianza.

Papa Francesco si è inoltre sempre mostrato estremamente aperto al dialogo e al confronto con chi è di vedute di vita diverse da quelle cristiane. Il Papa allora considera questo: che talvolta gli atei si dimostrano più cristiani di cristiani che lo sono solo a parole ma non nei fatti, pur andando in Chiesa tutte le domeniche e adoperandosi in opere di bene, talvolta solo apparenti. Il Papa non ha poi mancato di aprire un ampio e durevole dialogo con pensatori atei del recente passato, evidenziando acutamente come in realtà comune è spesso il linguaggio parlato da atei e credenti, più di quanto non si pensi. E infatti, come è stato bene evidenziato da alcuni studiosi di filosofia, il pensiero di Nietzsche, per la propria struttura verticale e per la volontà comunque di trovare una soluzione al “nulla”, si presenta come intrinsecamente cristiano. Ecco allora che l’apertura verso chi la pensa diversamente da noi, la solidarietà e l’aiuto verso il prossimo, il grande e universale principio di umanità e la tematica di un’etica universale laica e credente al tempo stesso inferiscono verso il generale messaggio comunicativo di una Pace ed Etica Universali: verso quei messaggi di uguaglianza e solidarietà confluiti nelle più nobili e celebri dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo.

Papa Francesco è allora stato soprattutto questo, un “angelo”, nel significato greco di “messaggero”. Un messaggero di pace e di “concordia omnium”. E ora, dopo la sua recente scomparsa, cosa ne sarà dei messaggi comunicativi che Egli ha tramandato al mondo? La risposta sta nella nostra, individuale e comune, coscienza umana e sociale di attuarli. Il Pontefice non ha infatti mancato di rimarcare il ruolo centrale della scelta, siccome sintesi decisionale e attuativa dei postulati della Ragione e della Volontà: e ciò, orientando le condotte umane verso il perseguimento del bene comune, soprattutto per offrire alle nuove generazioni un mondo migliore, non dimentichi dell’amore verso i bambini e gli indifesi. È nostro compito ora dimostrarci degni ascoltatori di quelle omelie che tanto possedevano, come possiedono, di umano, laico solidale.

Tratto da: https://www.osservatorio.milano.it/post/papa-francesco

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La forza di chi trasforma il limite in dono – 21/04/2025 – ilticino.it

Sembra che al giorno d’oggi la sensibilità umana si palesi come uno di quegli antichi verbi italiani caduti in disuso, forse perché “passata di moda”, forse perché non produttiva di utilità, in termini di tornaconto personale, in un tempo storico dove sembrano prevalere l’individualismo e l’utilitarismo in senso stretto. Non ci si avvede però che un beneficio fatto agli altri è in primo luogo un beneficio fatto a noi stessi. E infatti, dietro la massima “gli altri sono noi”, sta un universo di significati, tutti volti a condurre verso un’unica incontestabile verità: che nessuno può vincere da solo le sfide che a tutti noi la vita pone. Così, non solo è bene e doveroso farsi manifestazioni di altruismo e solidarietà, ma è anche utile. Gesti di amore, affetto e altruismo meritano certamente le persone con disabilità. Le persone con disabilità sono infatti persone di grande umanità e sensibilità, espressioni di una dolcezza superiore alla media di quella umana e che ha qualcosa di comune con la bellezza angelica. La bellezza, come ci ricorda Platone, non si misura infatti solo in bellezza estetica, ma anche e soprattutto in bellezza morale, in bontà e umanità. L’umanità a sua volta non rimane, né deve rimanere una mera formula astratta, scolpita nelle parole di autori dell’antichità, come Terenzio – “sono un essere umano e non posso non preoccuparmi di tutto ciò che è umano – o come il giurista Celso – secondo cui il diritto è l’arte del buono e dell’equo. L’umanità non si limita a ciò ma vive, come deve vivere, nei cuori degli esseri umani, quale legge morale scritta nei nostri cuori. Leggere allora di comportamenti di indifferenza o, peggio, di accanimento, verso bambini autistici o verso vittime di bullismo o, ancora, verso anziani o persone affette da patologie croniche, deve senza dubbio far destare la nostra coscienza e muoverci a riaffermare con decisione e vigore il valore della Giustizia. La giustizia non è infatti solo quella praticata nei tribunali, è anche quella posta in essere nelle relazioni sociali, umane e lavorative. Così, per essere persone giuste, occorre essere persone moralmente oneste e trasparenti, e dunque persone sensibili e umane, occorre cioè dimostrare la nostra autenticità morale, il nostro senso di umanità e dunque il nostro senso di giustizia, nonché il nostro amore per la legalità, e dunque per la comunità. Coinvolgere la nozione di legalità, lungi dal costituire un’astrazione teorica, costituisce invece il cuore della vita nella società civile, la quale decliniamo tutti i giorni, vuoi consciamente vuoi inconsciamente. Ma c’è di più: la sensibilità è espressione di legalità e la legalità costituisce manifestazione di sensibilità. È proprio così: come in un circolo ermeneutico, come in una sorta di eterno ritorno, la sensibilità, nella misura in cui viene posta in essere, rappresenta la misura del nostro senso di legalità, quale amore per la comunità e onestà morale. Del pari, è innegabile che le norme giuridiche, se lette con attenzione, racchiudono un profondo significato etico, il quale siamo chiamati a porre in essere e a scolpire nel nostro spirito. Ecco allora che dimostrare dolcezza e affetto verso una persona autistica o disabile o intervenire in sua difesa, magari affrontando da soli una decina di bulli, è non solo atto doveroso, ma atto positivo per la nostra spiritualità, poiché il bene che facciamo è bene che riceviamo e poiché dietro quella persona offesa sta l’immagine dello Stato, inteso quale Stato-comunità. Non è un caso se nel Vangelo viene detto “chi farà una cosa buona per un mio fratello, la farà a me” e se, del pari, viene punito severamente il servo infedele, chi cioè si fa forte con i deboli e debole con i forti o chi compie gesti di favore per mero tornaconto personale. Chi infatti compie ingiustizie nel poco, lo farà anche nel molto e la pena per lui sarà assai severa. Ecco allora che per non mostrarci deboli, insicuri, vigliacchi, e soprattutto per adempiere a inderogabili doveri di solidarietà (art. 2 Cost.), per mostrare a noi stessi di essere meritevoli e creature dotate di ragione, ossia di intelligenza orientata al bene, è per noi un dovere, in primo luogo impostoci dalla nostra interiorità, dalla nostra coscienza e dalla nostra legge morale, mostrare amore verso chi è meritevole di esso, perché persona più vicina alla categoria degli angeli che a quella degli esseri umani, come le persone autistiche, portatrici di handicap o di disabilità, dotate di una inarrivabile bontà e incapaci di provare sentimenti di vendetta, non perché non capaci di provare dolore, ma perché incapaci di ferire. Ecco allora che avere accanto a sé queste persone, lungi dal costituire un elemento di sfortuna, ne rappresenta piuttosto uno di arricchimento morale e di crescita di coraggio, senso etico e umanità.

Tratto da: https://www.ilticino.it/2025/04/21/la-forza-di-chi-trasforma-il-limite-in-dono/

Pasqua è solidarietà: il futuro si costruisce insieme – 19/04/2025 – ilticino.it

Pasqua non è una semplice festività, né, per chi crede, una semplice ricorrenza cristiana: è un tempo storico, un po’ come l’aoristo nella lingua greca. È un modo d’essere. È un modo di interpretare la vita e una chiave di lettura del mondo e della realtà che ci circonda. È anche la capacità di cogliere il bene e il bello che può esservi nell’esistenza e in ogni circostanza della vita. In un periodo storico ove la riflessione sembra, al pari dell’amore per la cultura, non più apprezzata, occorre ripensare all’essere umano, considerando quale può essere un’adeguata forma di linguaggio. In un mondo ove le tenebre e l’irrazionale sembrano avere preso il sopravvento, occorre riaffermare con decisione il ruolo della ragione, ragione intesa però non già quale l’illuministica “dea Ragione”, ma piuttosto quale intelligenza orientata al perseguimento del bene (S.Tommaso D’Aquino). L’essere umano è una creatura di ragione, come ci ricorda Dante: “fatti non foste a vivere come bruti ma a perseguire virtute et canoscenza”. Ecco allora il significato più profondo della razionalità umana, l’inclinazione al bene, anzi, per riprendere Platone, al Bene. Questa nobile accezione di essere umano come creatura di ragione era ben presente anche nella celebre massima di Protagora: “l’uomo (inteso come essere umano) è misura di tutte le cose”. Protagora stava a significare che è l’essere umano, con le proprie facoltà intellettuali, ad avere, solo tra gli animali, il privilegio di poter interpretare il mondo e la vita. Questa capacità di interpretazione diventerà tuttavia un limite nella filosofia di Kant, traducendosi in una visione già prospettata, secondo “occhiali” che ci forniscono una visuale solo parziale della realtà. Di lì a poco la parabola discendente della scienza, con il fallibilismo popperiano. Ma l’essere umano non è solo “scienza”, come asserivano i positivisti, ma anche “sentimento”, “emotività” e “intuizioni”, elementi fatti propri dalla grande letteratura romantica dell’800′ (in particolare si ricordi il capolavoro di Goethe, “I dolori del giovane Werther”). La storia dell’umanità probabilmente si basa su questo sempiterno dualismo: la mente da un lato, il cuore dall’altro. Così, dopo lo storico e letterario confronto dialettico tra “l’uno secolo contro l’altro armati”(Manzoni), ossia il 700′, con l’Illuminismo, e l’800′, con il Romanticismo, sembra che l’anima sia uscita dal corpo…e così i grandi dubbi del secolo scorso, rappresentati prima dall’incertezza esistenziale del “Viandante nel mare di nebbia”, poi dai dubbi scettici di Shopenhauer e da quelli nichilistici di Nietzsche, per infine pervenire a “L’Urlo” di Munch e a “Guernica” di Picasso. Ma il secolo scorso è stato anche un secolo di grandi discussioni ed elaborazioni giuridiche e scientiche, e non solo. È stato il secolo della nascita del diritto internazionale contemporaneo, con la Convenzione di Vienna sui Trattati, la Convenzione di New York sui diritti del Fanciullo, la Convenzione di Istanbul e molte altre Grandi Carte Sovranazionali.  È stato il secolo che ha visto la nascita di importanti organizzazioni internazionali, come l’ONU. Il secolo della scoperta della legge della relatività e di molte importanti normative nazionali, come la Costituzione, gli odierni codice civile e codice penale, come la legge sul divorzio e lo statuto dei lavoratori. È stato il secolo del crollo del muro di Berlino e dell’elaborazione di principi universali di uguaglianza, solidarietà e rispetto reciproco. E questo nel quale viviamo? Quale secolo vogliamo che sia? Quale forma sostanziale vogliamo conferirgli? Probabilmente la risposta è rimessa a tre elementi: volontà, ragione e scelta. I primi due formanti concettuali a monte, la terza positiva determinazione a valle. La scelta appunto, quella scelta che tanto può angisciare, perché l’una alternativa esclude l’altra (Keerkegard) e solo a posteriori si saprà quale è stata quella corretta. E tuttavia, a guidare la scelta stanno volontà e ragione, congiuntamente considerate, energie complementari che bene giustificano, se saggiamente inverate, quella celebre affermazione di Protagora di cui poco sopra si è detto. La saggezza appunto, l’intelligenza pratica e del caso concreto (Aristotele), la quale non può prescindere dall’umiltà e dell’onestà intellettuale, da quelle “humilesquae myricae” che bene danno il senso di come vada vissuta la vita: rispettando ogni forma di essa, ogni sua manifestazione. Proprio il rispetto è forse ciò che manca nell’epoca contemporanea e che allora è da riscoprire quanto prima. Il secolo in cui viviamo è stato un secolo di eventi di grande negatività: la pandemia di Covid 19, la guerra in Ucraina e quella in Palestina, oltre a grandi crisi economiche. Ecco allora che, proprio a fronte di tali criticità, occorre una risposta unita e coesa, che deve necessariamente partire dalla collettiva e comune volontà di far tornare in auge quella massima di protagoriana memoria sopra citata: l’essere umano come misura di tutte le cose. L’essere umano da intendersi tuttavia non già quale al centro dell’universo, quale nietszchiano “superuomo”, quanto piuttosto come parte di un tutto, quale sola creatura dotata di una razionalità tale da consentirgli di interpretare l’esistente e, con le proprie determinazioni positive, di cambiarlo, si spera, in meglio.

Tratto da: https://www.ilticino.it/2025/04/19/pasqua-e-solidarieta-il-futuro-si-costruisce-insieme/

La fedeltà nel lavoro e nella Costituzione – 06/04/2025 – ilticino.it e vittimedeldovere.it

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Di Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Come un organismo vivente non può proseguire nella sua vita senza che tutti i suoi organi vitali funzionino adeguatamente, così nemmeno lo Stato può preservarsi e correttamente funzionare, senza i contributi dei suoi cittadini, senza cioè che gli animi dei cittadini siano desti e pronti e maturi per contribuire al perseguimento del bene pubblico. La metafora adottata da Menenio Agrippa è perennemente attuale e bene fa comprendere cosa si intenda per “Stato-comunità”. Quella da ultimo accennata, lungi da costituire una sfocata immagine teorica, rappresenta una realtà che sperimentiamo tutti i giorni e che contribuisce alla nostra maturazione come persone. Così, un ruolo centrale in questo processo di accrescimento è rivestito dalla memoria, dalla memoria collettiva, senza la quale la stessa Carta Costituzionale avrebbe ben poco significato. Affinché non si venga  a ripresentare uno scenario ove tutto è oscurato, anche le coscienze, è fondamentale che la coscienza e la memoria tornino a parlare di sé a gran voce, facendo riecheggiare le corte della legge morale dentro di noi, facendoci cioè comprendere il senso del nostro essere autentico, il quale non può essere se non nella comunità e per la comunità. È imprescindibile allora recuperare questa prospettiva, in un contesto, non solo quello attuale, ma anche quello contemporaneo in generale, caratterizzato dalla frammentarietà e dall’individualismo. La nostra Repubblica e la nostra Costituzione su tutto si sono fondate meno però che su un approccio individualistico ed egoistico. Anzi, forte è il senso di attaccamento sociale ai valori fondanti della nostra Nazione, del nostro popolo, del nostro essere collettivo, in una parola, della nostra comunità. Uno Stato diviso, non solo è debole, ma, prima ancora, rischia un processo di spersonalizzazione e di perdita di significato dello Stato stesso. Nella Costituzione non ci sono mai diritti e doveri allo Stato puro, ma, quasi sempre, diritti-doveri…perché il diritto e il dovere parlano la stessa dialettica e costituiscono due medesime realtà complementari della stessa essenza: l’appartenenza a una comunità appunto. Su questa poetica letteraria, giuridica e morale si muovono fondamentali norme costituzionali, come l’art. 4 Cost. e l’art. 54 Cost. Nel primo articolo si consacra il lavoro come diritto e al tempo stesso dovere del cittadino. Il lavoro cioè non viene inteso, in senso riduzionista, quale strumento di sostentamento, ma, ben più profondamente, come opportunità (chance in termini civilistici) per realizzare nella sua pienezza la personalità umana di ciascuno e, al tempo stesso, quale dovere di fonte pubblicistica per il miglioramento della società in cui viviamo. Solo in tale prospettiva può giustificarsi e comprendersi il tenore letterale e concettuale dell’art. 54 della Costituzione, secondo cui “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi previsti dalla legge”. La fedeltà non rappresenta solo un elemento compositivo dell’ontologia del rapporto di lavoro dipendente, caratterizzandosi piuttosto come precetto assai più ampio, afferente ai generali doveri di buona fede e lealtà comportamentale che, come precisato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, permeano di sé l’intero ordinamento. Ecco allora che questa fedeltà, del dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne le leggi, si traduce nell’obbligazione primaria e più importante di tutte, quella che lega ciascun individuo alla collettività e che solo in tale prospettiva fa al primo assumere significato pieno. Non è un caso se questa fedeltà possiede i caratteri del sacro, al punto di essere definita sacra, in relazione al dovere di difesa, dall’art. 52 della Costituzione. Sotto tale profilo, si deve ricordare certamente chi di tale fedeltà è stato esemplare espressione, come espressione esemplare dell’adempimento del dovere lavorativo al servizio dello Stato. Il riferimento è alle “vittime del dovere”, ossia a una vastissima categoria di servitori della Repubblica, che hanno con coraggio e grande senso etico e impegno lavorativo, servito lo Stato e bene rappresentato i valori di cui esso è espressione, sino alla morte o all’invalidita’ grave. Queste persone, in altre parole, hanno posto in posizione di priorità la comunità rispetto a loro stessi, sacrificandosi per la protezione del bene comune e adempiendo lodevolmente al proprio dovere. È doveroso, necessario e fondamentale ricordare sempre queste figure di eroismo quotidiano, che rischiano di venire dimenticate dai mass media, forse più attenti ad altre tematiche. Il ruolo di queste figure è peraltro stato determinante nei momenti bui del secolo scorso, ove solo grazie alla solidarietà (art. 2 Cost.) di cui esse sono state alta manifestazione si è riusciti ad edificare la Repubblica, partendo dalle macerie lasciate da un’oscurita’ che mai più deve ritornare. Ecco allora il ruolo della memoria perenne e la menzione a fondamentali norme costituzionali, non solo l’art. 54, ma anche l’art. 11, che sancisce come l’Italia ripudi la guerra come soluzione delle controversie internazionali, viceversa ricercando la pace. La guerra appunto, un dramma che ha cagionato tante morti e tante invalidità permanenti, che mai più si spera abbia a ripetersi e che purtroppo, invece, ancora è tornata a manifestarsi in varie parti del mondo (in Ucraina ed Israele, ma non solo). Per contrastare queste forze del male è centrale allora recuperare un’autentica forma di amore verso la comunità, il che si traduce in primo luogo nella costante e doverosa riaffermazione del principio di legalità. La legalità, la legalità non solo formale ma anche e soprattutto sostanziale, si traduce infatti in primo luogo in questo: in uno sconfinato amore verso la comunità, che è in definitiva amore verso il prossimo e verso gli altri. Questo principio e questo modo di vivere la vita è il solo che utilmente può contrastare le gravi forme di violenza che lacerano i rapporti umani: la corruzione, i femminicidi, le baby gang, il bullismo. Tutti i reati si accomunano per questo: per essere “lesioni” e “violenze” ai beni giuridici su cui si fonda la vita della comunità e dunque quella dei singoli. Gli altri sono noi, ancora una volta, e solo ripercorrendo una dialettica dell’amore, della solidarietà e della legalità si potrà parlare davvero di progresso. Certamente i contributi dei ragazzi non solo saranno “lavori”, ma appunto “contributi”, perché l’auspicio è che essi divengano cittadini consapevoli del proprio ruolo, come il lavoro giammai va inteso meramente come “lavoro”, bensì come “contributo”.

(Articolo già pubblicato da Associazione Vittime del Dovere sul proprio sito istituzionale www.vittimedeldovere.it)

Tratto da:

Papa Francesco: un monito costante per la Pace, contro la guerra e l’ingiustizia – 09/03/2025 – ilticino.it

Di Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Si è voluto dare un titolo non casuale, rivolgendo un pensiero particolare a una figura dalla grande statura morale, il Pontefice Papa Francesco, le cui condizioni di salute preoccupano tutto il mondo, il mondo dei credenti, ma anche dei non credenti. Si è voluto fare questa precisazione per porre in evidenza come il senso di giustizia, l’amore per il bene della collettività, ma anche del prossimo e delle persone che incontriamo tutti i giorni costituisca una dimensione della vita etica e dell’etica pubblica che trascende da valutazioni di adesione o meno a una determinata religione. Il nome scelto dal Papa, Francesco appunto, parimenti non è stato casuale e tale scelta semantica bene esprime gli ideali di solidarietà umana, umiltà e ascolto del prossimo, che caratterizzano la persona di Papa Bergoglio. In uno scenario come quello di questi recenti anni, ove il mondo sembra aver perso la “trebisonda”, ove sembra aver perso cioè quella bussola di buon senso e di ragione fondamentale per orientare le scelte politiche ed economiche degli Stati.

Papa Francesco rappresenta una grande energia positiva capace di contrapporsi alle forze dell’oscurità che vogliono calare il loro dominio sul pianeta -il riferimento è alla guerra in Ucraina, ma anche ai numerosi conflitti armati in Siria, Palestina, Yemen, negli Stati africani, per non parlare della condizione di sostanziale schiavitù che si trovano a vivere le donne nel restaurato regime talebano in Afghanistan-. A tali inaccettabili e gravissime violenze e ingiustizie che feriscono il mondo, le sole energie capaci di contrapporsi sembrano essere rappresentate proprio dalla Fede e dalla Giustizia, nonché dall’inno alla Pace bene incarnate da Papa Bergoglio. Non è un caso l’accostamento delle nozioni di Fede e Giustizia, in contrapposizione a “violenza” e “ingiustizia”. E infatti, la dialettica parlata da coloro che vivono ispirando la propria vita (rectius esistenza) a fede e giustizia, è la medesima, proprio come bene è stato scritto dagli studiosi di importanti autori latini, Seneca e Terenzio su tutti, in relazione ai quali si è parlato di “umanesimo laico”, siccome efficacemente comprovabile dall’alto senso di umanità e di cristianità presente in una celebre affermazione terenziana: “sono un essere umano e non posso non preoccuparmi di tutto ciò che è umano”. Ma non è tutto. Anche i pensatori e i filosofi che apertamente si sono dichiarati atei, su tutti Leopardi e Nietzsche, possedevano, a loro modo, un senso di aspirazione verso la giustizia tipicamente cristiano. Proprio ciò accomuna l’ateismo e il cristianesimo, al di là delle differenze: la lotta contro l’ingiustizia. Così, il messaggio del pontificato di Papa Francesco, un messaggio di solidarietà e umanità, bene esprime questo senso di aspirazione alla giustizia che trascende le differenze di credo. Solo questa energia positiva può allora far riflettere gli esseri umani e soprattutto i Governanti sull’esigenza di accantonare le pulsioni egoistiche, per unire anziché dividere e produrre certamente effetti più positivi per tutti. Non è un caso se, nelle sue omelie, talvolta il Papa non esiti a instaurare un significato e stimolante confronto con chi, nel corso della storia, l’ha pensata diversamente. Eppure…vi è una legge naturale e, unitamente, una legge divina, scritta nel cuore di tutti gli esseri umani, che tutti siamo chiamati e tenuti ad evocare e la quale, in primo luogo in forma di coscienza, è giudice a noi stessi, al pari di Dio sommo Giudice (S.Tommaso D’Aquino,Suarez).

tratto da: “Papa Francesco: un monito costante per la Pace, contro la guerra e l’ingiustizia” – Il Ticino

Una vita senza rispetto non è degna di essere vissuta – 21/12/2024 – ilticino.it

Rispetto, tutela e valorizzazione: un climax ascendente che sempre tiene fermo il ruolo centrale della persona umana quale cuore del sistema, al centro appunto, per così dire, dell’universo, ossia
dell’ordinamento giuridico e sociale, con particolare riferimento alla dimensione della vita pubblica. Un ruolo centrale, nel sistema etico, filosofico e giuridico che valorizza l’importanza dell’espressione e manifestazione della personalità umana trova piena comprova nei principi di solidarietà, altruismo e sussidiarietà orizzontale, sanciti nelle norme costituzionali (artt. 2, 3 e 118, ultimo comma, Costituzione).
La vita privata e quella pubblica, in fondo, rappresentano entrambe due convergenti prospettive
dimensionali di una medesima realtà. Chi infatti non rispetta le regole ed è infedele nel poco, lo sarà anche nel molto: è un messaggio di carattere universale quello, biblico, della parabola del servo infedele. E allora…come come comportarsi correttamente, per sopravvivere in un mondo certamente non facile, dove sono molti coloro che vogliono farci del male e pochi coloro che possiamo davvero definire amici? Usando rispetto, tutela e valorizzazione. E allora, si potrebbe pensare…bisogna ragionare nell’ottica di porgere l’altra guancia? Non esattamente: si deve…rispettare la legge, adempiere alla propria legge morale, che ha natura non solo individuale ma anche collettiva…creare una linea di difesa, rappresentata dai valori del vivere civile e del rispetto. Il rispetto appunto: rispetto delle leggi, della persona, dell’altrui sfera personale e giuridica, ma anche di quei principi etici e giuridici che regolano i rapporti della società civile: correttezza, buona fede e leale collaborazione.
Ma…è sufficiente? No. Indispensabile è parimenti la tutela dei diritti – il libro sesto del codice civile
non a caso si intitola così – a chiudere come l’alfa e l’omega quel sistema in realtà generale, che,
partendo dalla sua genesi (la capacità giuridica), perviene al suo apice più elevato, con il sistema delle obbligazioni. Ecco una parola chiave: l’obbligazione. Obbligazione che noi abbiamo non solo nel momento in cui stipuliamo una compravendita con Tizio o una locazione con Caio, ma, più in
generale e prima di tutto, quando noi veniamo al mondo e siamo chiamati a relazionarci a un tempo con noi stessi e con l’ordinamento globalmente considerato. La tutela allora rappresenta una convinzione attiva, che si aggiunge alla mera convinzione passiva (il rispetto) e la completa. Così, la valorizzazione rappresenta l’apice di questa parabola. Tutela e valorizzazione dunque del territorio, del paesaggio, dei beni culturali…ma anche delle persone che sono protagoniste di questo territorio…valorizzazione della persona umana in primis…singolarmente e nelle forme associative in cui si esplica la sua personalità (art. 118, ultimo comma, Costituzione: lo Stato che appunto, come Stato comunità, ha questo compito). Le relazioni umane, quali forme etiche di valorizzazione dei valori (l’alliterazione è rafforzativa e rende il senso della necessità indispensabile di ravvivare ogni giorno il senso e la natura dei valori fondanti della società civile) si traducono allora non in un semplice vivere, ma in un “vivere al quadrato” e quindi in un “esistere”, in un “esserci”. Cosa diversa è infatti limitarsi a vivere, pensando ai bisogni primari ed esclusivamente in chiave egoistica, rispetto all’ ”esistere”, ossia all’esserci per gli altri, per il prossimo, come bene è testimoniato dalla distinzione, nella lingua tedesca, tra i verbi “sein” (“essere”) e “sollen” (“dover essere, essere in senso morale”).
Il rispetto, la tutela e la valorizzazione costituiscono in primo luogo, allora, tre concetti etici e sociali intimamente legati e connessi, concetti se vogliamo anche poetici, letterari e filosofici. In effetti, il rispetto implica il “non tangere” la sfera altrui e, se violato, quel comportamento in violazione si traduce in un abuso, in un abuso del diritto, in una forma di tracotanza, nel superamento di un sacro “themenos”, dell’intimità personale, dello spirito, della propria natura, della propria anima (letteralmente, dal greco, “recinto”, “solco”, “soglia”) la cui infrazione comporta la configurabilità di una (giuridica ed etica) violazione di domicilio. Ecco allora qualche caso storico…come l’episodio, narrato da Erodoto, nel quale il re di Persia Serse fece fustigare i Dardanelli per la sconfitta militare subita, oltraggiando gli dei e dunque quel senso metafisico di misura nelle cose…o, ancora…il caso di don Rodrigo, che, come narra il Manzoni, voleva a tutti i costi costringere Lucia a sposarsi con lui, anche ricorrendo alla violenza e dunque violando il sacro themenos dell’amore. Ecco allora il bisogno di tutela della persona oltraggiata, della persona offesa, la cui testimonianza, se ritenuta credibile, può essa stessa sola fondare la motivazione di una sentenza di condanna. Ecco allora che sempre i bisognosi, gli indifesi e gli oltraggiati (è il caso di Lucia nei Promessi Sposi, ma anche delle molte donne donne vittime di stalking, di violenze e di lesioni, come lo sfregio del viso con l’acido, da parte di uomini violenti e inadeguati). E dunque, la valorizzazione, la valorizzazione del bene giuridico e della persona, persona e bene giuridico al centro dell’intero ordinamento, non solo penale, ma anche,
in primis, costituzionale e sovranazionale (si pensi alla Convenzione di New York sui diritti del
fanciullo e sulla Convenzione di Istanbul, solo per citare le più note). Quella valorizzazione della
persona umana così posta in risalto nel testo letterale dell’art. 2 Cost. costituisce allora la cifra di una sempre eterna e incessante dialettica tra etica e diritto. Il diritto allora è proprio questo: cura del bene, del buono e del giusto, non potendo prescindere dall’etica né farne a meno, viceversa risultando incomprensibile.

tratto da: https://www.ilticino.it/2024/12/21/una-vita-senza-rispetto-non-e-degna-di-essere-vissuta

Un nuovo inizio o l’inizio della fine? – Autunno 2024 – Magazine WikiMilano

A quanto sembra, l’intelligenza artificiale si sta evolvendo assai rapidamente, molto più velocemente di quanto non possa fare l’essere umano. Lo scorso anno Open AI aveva lanciato l’ultima grande innovazione nel campo dell’intelligenza artificiale, aumentando le dimensioni dei suoi modelli fino a proporzioni vertiginose, con GPT-4. L’azienda, più recentemente, ha annunciato un nuovo passo avanti: la creazione di un modello dalle dimensioni maggiori, capace di ragionare in modo autonomo, non solo rispondendo a domande dirette fatte da un utente, ma anche di risolvere problemi di logica complessi, del tipo: “Tizio ha l’età che Caio avrà quando Tizio avrà il doppio dell’età che Caio aveva quando l’età di Tizio era la metà della somma delle loro età attuali. Qual è l’età di Tizio e quella di Caio?”. Come è intuibile, questa nuova forma di intelligenza artificiale, pur sapendo risolvere problemi di logica complessi, sembra non in grado di affrontare con maturità intellettuale problemi di natura etica, giuridica, sociale e filosofica, come meglio si dirà. La contemporanea creazione di androidi capaci di pensare da soli ed elaborare autonomamente dei sentimenti, porta inoltre a rilevantissimi interrogativi, come, ad esempio, se la natura di questi sentimenti sia equivalente a quella umana e in che modo si possa attribuire il carattere della proprietà, per così dire della “suitas”, a una creatura artificiale, cioè priva di anima. In altre parole, viene ora messa in crisi la tradizione che, con Socrate e Platone (ma probabilmente, secondo alcuni, già con Omero, che nell’Iliade fa uso del termine “pshykè” forse intendendolo non come mero spirito vitale ma come qualcosa di metafisico) ravvisava la peculiarità dell’essere umano nella presenza, in un corpo, di un’anima, di qualcosa cioè che elevava questo da tutti gli altri esseri viventi. Il tema è peraltro quello della (non) prevedibilità delle conseguenze di tale ipervelocizzazione dei processi e di questa capacità delle forme di intelligenza artificiale di evolversi da sé. Il rischio è infatti che all’uomo possa sfuggire il controllo su queste forme di intelligenza ormai, inutile dirlo, superiori. Vi è allora il pericolo che la creatura, resasi conto di possedere facoltà intellettuali superiori a quelle del creatore, si ribelli ad esso, reclamando il predominio sul pianeta e, potenzialmente, riducendo in schiavitù il suo artefice o uccidendolo, come spesso ci viene rammostrato nei film fantascientifici. Il grave pericolo cui si va incontro è quello allora, vieppiù, della distruzione dell’intero pianeta, per mano peraltro di una creazione umana. Si devono comunque fare delle precisazioni su cosa si debba intendere per capacità di questa nuova intelligenza artificiale di “pensare da sola”. Infatti, l’assunto è predicabile con riferimento a problemi di logica, di logica matematica, di logica fisica, o comunque di quesiti che sottendano un quadro matematicamente predeterminabile. Più difficile è l’attribuzione del predicato nel caso di questioni etiche, psicologiche e filosofiche, le quali, stante il loro carattere “letterario” e prettamente umano, difficilmente appaiono risolvibili da un’entità che ragiona secondo schemi certi e predeterminati. Così, ci si può chiedere come siano definibili da un androide le nozioni di “bene” e di “male”, come sia da esso concepibile il ruolo della filosofia e come siano spiegabili gesti di altruismo e solidarietà, che sono per definizione non predeterminabili e non rispondenti a criteri di utilità materiale. In tal senso, occorre ancora interrogarsi su questioni complementari, come, ad esempio, come questa creatura possa elaborare le nozioni di piacere e di dolore, se possa percepire ansia per l’approssimarsi della sua fine e se, essendone a conoscenza, cercherebbe di evitarla o la accetterebbe come dato ineludibile, se sia concepibile, nella sua mente, compiere atti che danno piacere ma svantaggiosi economicamente, come ad esempio praticare sport, andare al cinema, al teatro o in discoteca, sposarsi e avere figli. Ci si deve inoltre chiedere, come accennato, se questa forma di intelligenza sarebbe in grado, ad esempio, di fornire risposte a quesiti di natura filosofica o giuridica, come il significato di “giustizia”, la natura giuridica della risoluzione del contratto o della mora del creditore o del debitore o se sia ammissibile l’incerta figura civilistica dell’autorizzazione
o, ancora, se sia ammissibile la, parimenti incerta ipotesi, del mandato ad alienare, o, ancora, una delle questioni più complesse in campo filosofico: se la natura dell’essere umano sia buona (Locke, Terenzio) o, viceversa, malvagia (Hobbes, Plauto). Si può dubitare inoltre che questa forma di intelligenza, per quanto raffinata, possa per sua volontà scrivere delle poesie, dei trattati giuridici o filosofici, dei romanzi, oppure mettersi a pregare e ad andare in chiesa. Certamente, la coscienza è cosa diversa dalla capacità di pensare in modo autonomo. Sembra, insomma, che questa forma di intelligenza artificiale resti appunto, pur sempre, artificiale, e dunque incapace di essere “creatrice”, “poetica”, “filosofica” e “metafisica”. Sembra insomma che essa si palesi quale un grande e potente drago che tuttavia è incapace di volare verso i cieli dell’iperuranio. I problemi centrali del caso in esame attengono proprio a questo: se siano predicabili gli attributi della coscienza e della volontà in capo a una forma di intelligenza non umana. Anche a voler fornire risposta positiva, resta comunque un dato ineludibile: che l’intelligenza, intesa come mera capacità di accumulo di nozioni e capacità, anche assai elevata, di ragionamento, è cosa diversa dalla ragione, ossia dall’intelletto orientato all’etica (S.Tommaso d’Aquino), al punto che, come è stato detto dalla filosofia tomistica e dalla teologia medioevale, in assenza di un’anima incorporata in una creatura terrena, nemmeno potrebbe parlarsi di ragionamento, nozione che affonda le sue radici in quella di “ragione” e non in quella di mera “intelligenza”. Inoltre, l’attributo della coscienza implica quello di categorie squisitamente metafisiche, quali quelle di “diligenza”, “senso etico”, “responsabilità” e “autoresponsabilità”. Chiaro è infatti che una coscienza priva di senso etico e di responsabilità sarà sempre una coscienza negativa e malvagia, nemmeno autonomamente concepibile come coscienza e ragione sotto il profilo filosofico, quanto piuttosto quale “non essere” e “carenza di bene”. Se non pochi problemi pone l’elemento della coscienza, non meno ne postula quello della volontà, specie in relazioni a grandi categorie giuridiche, che presuppongono al centro l’azione umana, come la causalità penalistica e quella civilistica. Ci si deve cioè chiedere se questa forma di intelligenza artificiale così evoluta e capace di ragionare da sé possa rispondere di un fatto di reato. Il confronto è allora da effettuarsi in relazione al duplice piano dell’imputabilità e della causalità, nonché, ulteriormente, a quello della colpevolezza. Sotto ad esempio il profilo dell’imputabilità, requisito imprescindibile per l’ascrizione di un fatto di reato, l’art. 85 secondo comma del codice penale sancisce che “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Per quanto si è detto, la definizione di queste nozioni in capo all’AI appare assai problematica, poiché non è detto che, pur essendo ad essa tali attributi astrattamente predicabili, essi siano di identica natura di quelli ravvisabili in capo all’essere umano. Quanto al tema della causalità, si rende necessario un preliminare confronto con le teorie classiche che si sono formate sul tema. Così, secondo la teoria della condicio sine qua non e la teoria naturalistica, la risposta dovrebbe essere affermativa, poiché tale teoria considera rilevanti solo gli accadimenti del mondo naturale e materiale. Secondo, invece, la tesi della causalità umana (Antolisei), la risposta dovrebbe essere assolutamente negativa, poiché, secondo questa tesi, è rilevante solo ciò che è umanamente controllabile, che cioè rientra nella signoria causale dell’evento propria solo dell’essere umano. Più problematico appare l’inquadramento del problema nelle maglie della tesi della causalità adeguata, la quale considera rilevante quello che accade di regola nel mondo umano e naturale, serie causale di accadimenti che però sarà completamente diversa dalle regole di generalità e dalle massime di esperienza che governano il mondo robotico. Sotto il profilo della colpevolezza, si deve poi rilevare come sarebbe assai arduo predicare teorie distintive come la teoria psicologica e la teoria normativa della colpevolezza in capo a un’entità oggettiva e non propriamente qualificabile come “soggetto”, quale è l’androide, con conseguente problematica inferenza in capo all’intelligenza artificiale del divieto di imputazione per responsabilità oggettiva (su cui v. Corte Costituzionale sentenza n. 364/1988). Ancora più problematica risulta la configurabilità di un ipotesi di c.d. autore mediato, ossia di quell’ipotesi bene descritta dall’art. 48 del codice penale, secondo cui le disposizioni in tema di errore (art. 47 c.p.) si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno, con la previsione che “del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”. Appare cioè difficile declinare le nozioni di “errore” e “inganno” in relazione a un’ente che agisce secondo stimoli esterni o comunque caratterizzato da un intelletto con caratteristiche diverse da quello umano, posto che le norme penali sono state pensate in relazione all’intelletto umano, dovendosi, con riferimento all’AI, allora, riscriversi l’intero ordinamento (!). Resta peraltro rilevantissimo il problema della certa identificazione dell’autore nei reati informatici, come la truffa a mezzo di strumenti informatici e l’accesso abusivo a sistemi informatici. L’identificazione dell’autore, già complessa in caso di autore umano, si renderebbe ancora più difficoltosa, infatti, in ipotesi di loro causazione da parte di un androide, dietro il quale potrebbe celarsi una figura umana che abbia, in ipotesi, organizzato l’intero disegno criminoso. Si renderebbero inoltre necessaria l’adozione di nuove definizioni di “dolo”, “colpa”, “diligenza” e “negligenza”, oltre a una inevitabile riscrittura di tutte le laboriose sentenze elaborate circa, ad esempio, la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente e in tema di concorso esterno nel reato, sotto tale ultimo profilo risultando infatti pressochè impossibile l’accertamento giudiziale della presenza o meno dell’elemento soggettivo costituito dall’”affectio societatis”. Insomma, per quanto evoluta e raffinata possa essere, una macchina resterà sempre una macchina, dovendosi, viceversa ragionando, riscriversi il sistema intero. Ci si può anche porre il quesito rappresentato dalla fonte concettuale di tale avanzamento tecnologico ormai privo di significato etico e anzi controproducente, quanto ai pericoli per la sicurezza umana e per la potenziale ribellione di queste macchine. La risposta può forse rinvenirsi in uno stravolgimento del modo di pensare dell’essere umano moderno e in un estremo propagarsi di una forma di egoismo senza limiti, rappresentato dall’elogio smisurato della “volontà di potenza” (Nietszche) e dall’espansionismo dell’”io”, di cui la realtà sarebbe mera propagazione (Hegel). Tali pericoli concettuali erano ben noti al filosofo Heidegger, che, in una celebre intervista al giornale tedesco “Der Spiegel”, definiva l’essere umano contemporaneo come “inquietante”, perché dimentico di autentiche forme etiche, incapace di formulare un sistema di linguaggio e incapace di ragionamenti, ma solo di connessioni di parole. Proprio qui sta il tema e la risposta: che solo l’essere umano può ragionare, cioè pensare in modo etico e agire in modo eticamente orientato (S.Tommaso d’Aquino). Perso tale attributo, l’essere umano finisce per perdere la propria identità morale, divenendo qualcosa d’altro: una macchina dalle sembianze umane probabilmente. Ma una macchina è solo capace di intelletto…non di ragione.

Fonte: https://magazine.wikimilano.it

Caporalato, il ritorno della schiavitù in Italia – 9 agosto 2024 – affaritaliani.it

Il caporalato merita di essere annoverato tra i delitti che ledono i diritti fondamentali dell’essere umano

di Gustavo Cioppa
Magistrato, già sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Posto che l’attività delittuosa merita sempre aspra condanna, vi sono determinati reati estremamente diffusi nel tessuto sociale italiano e particolarmente gravi, espressioni molto spesso di una vera e propria privazione della dignità umana e certamente comunque di un grande disvalore. Tra questi deve senza dubbio essere annoverato il reato di cui all’art. 603 bis del codice penale, ossia il delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, meglio noto come caporalato, reato offensivo del bene giuridico rappresentato dal diritto al lavoro, bene giuridico di sicuro fondamento costituzionale, negli articoli 1 e 4 della Costituzione, secondo cui l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 comma 1 Cost.) e secondo cui la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art. 4 comma 1 Cost.). Al di là del suo inquadramento scientifico, il caporalato sembra tristemente essere diventato una consuetudine e questo si traduce in un’inaccettabile forma di disprezzo per la vita umana.

Le condizioni umilianti e disumane dei lavoratori extracomunitari

E infatti il lavoratore, spesso proveniente da Paesi extracomunitari, deve sottostare a condizioni umilianti, soffrendo tutti i giorni condizioni di vita disumane. Quale allora il prezzo da pagare per la propria libertà? Fuggire da una situazione di miseria economica, da guerre o da condizioni di schiavitù per ritrovarsi in situazioni di assoggettamento della propria vita al volere di una persona che può disporre del corpo e della libertà morale dei lavoratori? Proprio questa è la situazione che vivono coloro che lavorano per un caporale: una condizione di pieno e assoluto assoggettamento al volere di una persona che detiene una sorta di ius vitae ac necis sui suoi sottoposti.

Il caporalato bene merita allora di essere annoverato tra i delitti che ledono i diritti fondamentali dell’essere umano, perché si traduce in primo luogo in un’intollerabile offesa al senso di umanità. Chi accetta le condizioni imposte dal caporale spesso lo fa perché non ha scelta: perché l’alternativa è una morte certa…e allora? Allora si è costretti a scegliere la schiavitù, per non morire, ma a costo comunque del sacrificio della dignità umana, come nel caso dei braccianti di Latina, cui venivano somministrate sostanze stupefacenti affinché essi lavorassero anche 21 ore al giorno, oppure nel caso dei braccianti di aziende agricole, come in Emilia Romagna, costretti a lavorare nelle ore più calde del giorno in questa caldissima estate. Si accetta di non avere un giorno di riposo, di lavorare per meno di 5 euro all’ora, di non potersi sposare, di vivere in fabbricati fatiscenti privi di servizi sanitari, di non poter pranzare o cenare, di non poter avere una vita sociale. La persona viene allora ridotta a oggetto, a merce.

L’ipotesi del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù

Sorge allora la domanda: è questa vita o vi sono gli estremi per la denuncia non solo del reato di cui all’art. 603 bis c.p. ma anche per quelli del reato di cui all’art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù)? Probabilmente il capo di imputazione ben potrebbe ricomprendere anche tale seconda fattispecie criminosa, che ben descrive cos’è la schiavitù: non un generico sfruttamento, comunque tristemente diffuso, ma la riduzione o il mantenimento di una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative umilianti e a pericolo della sua stessa vita, con pieno potere di disposizione del caporale sul corpo e sulla volontà di queste persone, ridotte a merce, private in definitiva della loro anima, poiché un “no” a questo tiranno implicherebbe, nella migliore delle ipotesi, ritorsioni e percosse, come è accaduto di recente nelle Langhe. E allora quale il prezzo da pagare per guadagnare quei pochi spiccioli per non morire di fame?

Rinunciare alla propria dignità personale e alla propria libertà: barattare una morte certa con un destino di schiavitù. La schiavitù non è allora stata abolita con il passaggio a uno Stato di diritto. La rivoluzione francese, che tanto proclamava ideali di libertà ed uguaglianza, si è del resto caratterizzata per una grande violenza e per molte morti di innocenti e non ha comunque risolto il problema della schiavitù economica, ossia di quell’atteggiamento di chi concede sì un lavoro o una fonte di reddito a una persona in difficoltà economiche, ma a un prezzo elevatissimo per quest’ultima: la rinuncia alla propria dignità. Ciò probabilmente giustifica l’affermazione di chi, come il filosofo Schopenhauer, ha sostenuto che nello Stato di diritto si è semplicemente passati dalla logica del più forte a quella del più furbo.

La consapevole malvagità del caporale

E appunto cosa diversa è la malvagità che spesso si cela dietro alla furbizia rispetto alla ragione – non mera intelligenza in senso stretto (per un approfondimento v. quanto scriveva sul tema S. Tommaso D’Aquino) -. Sotto questo profilo, il caporale è una persona astuta, ma non certo dotata di ragione, ossia di bontà morale. Egli è appunto astuto, ma malvagio, nel momento in cui adotta determinate strategie lavorative o fiscali per eludere il versamento delle imposte, sottopagando i propri dipendenti e non pagando loro i contributi dovuti per legge.

Nonostante questa malvagità, molte persone, spesso provenienti da altri Paesi, per sfuggire a guerre o a situazioni di sostanziale privazione della vita, vengono in Italia…per ritrovarsi spesso in situazioni ancora peggiori, come ben espresso da un bracciante africano intervistato nel contesto del caporalato pugliese. Questo è allora l’eterno ritorno della schiavitù. Si tratta di un dramma vissuto anche in altri ambiti, come quello della prostituzione, ove il pappone recluta queste ragazze costringendole a prestazioni sessuali, spesso dietro percosse (si rientrerebbe anche in questo caso, come in quello del caporalato, nell’ipotesi del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù ex art. 600 c.p., alla luce del dettato letterale di tale ultima norma, che punisce “chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali, ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi”).

Il caporalato deve essere sradicato dal tessuto sociale

Se allora vale nel nostro ordinamento il principio di effettività del medesimo (cfr. sul punto Kelsen, Zagrebelsky, Rodotà) e se le norme giuridiche costituzionali possiedono dunque una reale, diretta ed immediata portata precettiva, va da sé che, fenomeni come quelli del caporalato, come pure quelli, ad esso similari, dello sfruttamento della prostituzione, tutte manifestazioni di un vero e proprio assoggettamento continuativo della persona, con costrizione di questa di prestazioni umilianti, non solo meritano aspra condanna da parte di tutti, ma necessitano di un pronto ed effettivo sradicamento dal tessuto sociale. Ciò è possibile solo attraverso un recupero delle forme etiche tipiche dell’essere umano e di una stessa forma etica dell’economia, un’economia e un mercato del lavoro cioè che non tendano allo sfruttamento e al mero accaparramento del profitto, con conseguente svalutazione del sostrato umano che, come sorregge i rapporti umani, così sorregge quelli lavorativi.

In un certo senso, il tema in esame si accosta ai pericoli dell’intelligenza artificiale, alla considerazione cioè dell’essere umano non più come persona ma come mero prodotto e, stante tale inaccettabile qualificazione come merce, il diritto in capo al datore di lavoro di disfarsi di esso una volta divenuto non più produttivo. In tal senso è imprescindibile un recupero dell’equità. Il riferimento è senza dubbio a quanto dispone l’art. 1374 del codice civile, secondo cui “il contratto obbliga alle parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità”. Il riferimento all’equità appunto, equità che non può essere intesa quale elemento residuale ma rappresentante piuttosto un principio fondamentale che permea tutto l’ordinamento, giuridico e non solo.

L’emblematica e drammatica vicenda di Satman Singh

L’equità però non è un precetto solo giuridico e astratto-teorico. Essa deve essere concretamente posta in essere nei rapporti umani, compresi quelli lavorativi. Ecco allora che non devono più verificarsi fatti come quello, recente, di Satman Singh, bracciante trentunenne di origine indiana, che, anziché essere prontamente soccorso a seguito di un infortunio sul lavoro, ove gli era stato rimasto tranciato un braccio e schiacciati gli arti inferiori, è stato abbandonato davanti alla porta di casa, poggiato sopra una cassetta utilizzata per la raccolta degli ortaggi.

Il caso di Satman è solo l’ultimo di una serie di soprusi che tuttora proseguono, con una spirale simile a quella dei femminicidi. Tutto questo chiaramente è inaccettabile e merita pronta risposta, sotto più versanti, con particolare riferimento all’abbattimento dei costi del lavoro, alla premiazione della qualità attraverso dei rating aziendali, specialmente ai fini dell’aggiudicazione di appalti pubblici, rating che, per essere rilasciati, tengano in considerazione le condizioni di lavoro all’interno dell’impresa, alla previsione di una specifica causa di esclusione automatica dalla partecipazione alla gara per l’impresa che commetta il reato di caporalato e di una sospensione della procedura di gara in caso di indagini a carico della stessa per la medesima ipotesi di reato, oltre a un più generale e necessario coinvolgimento solidale ed etico verso una forma di morale economica, che valorizzi maggiormente il ruolo della persona.

Un richiamo ai doveri della solidarietà umana

In tal senso militano la tesi dell’impresa come istituzione, l’istituto dell’impresa sociale e quello dei contratti di solidarietà. Queste tre fattispecie evocano una più generale forma di eticità dell’economia, ossia un’economia (letteralmente dal greco “oikos”, cioè “casa”) capace di fornire tutele e protezioni, un’economia in senso autentico che, rifuggendo da logiche improntante esclusivamente al profitto e tendenti a svalutare la centralità della persona, ripensi a se stessa.

Un recupero etico questo che peraltro molte imprese virtuose stanno ponendo in essere, con l’assunzione di lavoratori invalidi e di persone anziane, di modo che, quella “fame di contratto” ben enunciata da un bracciante africano raccontava della sua grande delusione rispetto alle promesse di una vita migliore e delle condizioni disumane di lavoro e abitative, sia un dato che certamente deve essere ricordato, ma che possa dimostrarsi inattuale, se…tutti…agiremo insieme, adempiendo agli inderogabili doveri di solidarietà umana che il nostro senso di onestà e di autenticità morale ci impone.

Fonte: https://www.affaritaliani.it/milano/caporalato-il-ritorno-della-schiavitu-in-italia-932042.html

La responsabilità – 4 luglio 2024 – osservatorio.milano.it

La responsabilità rappresenta un principio universale e al tempo stesso una forma e un modo d’essere dell’ordinamento giuridico, economico e sociale, nonché dello Stato, inteso come Stato-comunità. Oltre che una dimensione strettamente pubblicistica e superindividuale e che trascende l’individuo, la responsabilità presenta altresì una dimensione privatistica e afferente alla personalità e alla psiche di ciascun soggetto, nel senso grammaticale, etico e concettuale del termine. Ecco allora che la responsabilità si declina su molteplici piani: quello etico, quello politico, quello economico e quello giuridico, come meglio si dirà infra. Sul piano grammaticale, la responsabilità è la principale attribuzione del soggetto, inteso come entità capace di autodeterminarsi e di compiere scelte, come comprova la scomposizione letterale del termine in “capacità” (letteralmente: “abilità”) di fornire responsi, che siano adeguati, convincenti, concreti, efficaci ed effettivi. Ecco allora che, come il mondo materiale non avrebbe senso, perché altrimenti incontrollabile, senza le leggi della fisica, così l’ordinamento non sarebbe concepibile nella sua realtà ontologica se privo di regole e di correlative sanzioni. E infatti tutte le norme, ancorchè di carattere etico, sociale o psicologico, sono coperte da una sanzione. Proprio in tal senso ben si apprezza dunque la più profonda giustificazione causale della responsabilità, quale principio, regola e sanzione, nonché, ancor prima, quale significato a monte dell’agire umano e pilastro portante della civiltà. Non sarebbe infatti predicabile una scelta del soggetto senza che lo stesso sia tenuto a risponderne, poiché altrimenti verrebbe a perdere di significato il ruolo della psiche come fonte di responsabilità, della kantiana legge morale, che proprio a tale funzione assolve, ossia il ricordarci che i precetti giuridici e morali non sono solo entità a noi esterne, ma fanno parte della nostra natura, quali creature intrinsecamente responsabili perché portate al bene, perché “teste d’angelo”. Senza responsabilità verrebbe meno, altresì, l’equilibrio dei rapporti sociali, nonché la misura della relazione tra noi e il mondo esterno. Ecco perché l’azione irresponsabile viene punita con una sanzione: perché rompe il sistema, rompe il fascio obbligatorio che regola l’ordinamento, fascio obbligatorio che da alcuni autori processualcivilisti tedeschi verrà ben definito come “rapporto giuridico fondamentale”. Occorre allora scandagliare i vari piani concettuali su cui si declina il tema oggetto di indagine. In primo luogo il profilo etico, ove la responsabilità assurge, come accennato, a regola di funzionamento della società civile, al pari di come nella fisica ogni azione produce una reazione uguale e contraria. Il riferimento alle regole fisiche evoca il principio più generale del significato dei rapporti sociali, di come cioè si sia passati da uno stato di natura allo stato di civiltà, attraverso la stipula del contratto sociale, la cui prima regola si traduce nel brocardo latino “pacta servanda sunt”. Quale precetto etico, la responsabilità si traduce in norma conformativa dei comportamenti umani e quale sanzione in caso di violazioni, in ossequio alla nozione di giustizia distributiva, che presuppone a monte una scelta etica: scegliere, letteralmente, come “fare le parti” (infatti, il fato, in greco “moira” deriva da un verbo greco che proprio significa “fare le parti”). Tale ultimo addentellato concettuale si riconnette anche a una tematica teologica, ossia della responsabilità quale principale attributo di Dio, sebbene in un’altra declinazione rispetto a quella valevole per gli esseri umani. Mentre infatti le vite e le scelte dei mortali non seguono la necessità, essendovi dissociazione, nel mondo terreno, tra “volere” e “potere”, l’essenza di Dio sta proprio nella necessità, ben espressa dal dantesco “vuolsi colà ove si puote ciò che si vuole”. Se infatti Dio è Bene e Giustizia, le sue scelte saranno sempre responsabili e dunque la responsabilità viene a configurare il suo principale attributo, nell’accezione però di una responsabilità necessitata.

La responsabilità assume particolare pregnanza altresì con riferimento alla vita politica, che con il tema etico presenta indubbie inferenze, traducendosi la politica, nel significato greco del termine (“politeia”) quale cura dell’interesse pubblico a tutela e a beneficio della comunità di riferimento, a fronte dei cui elettori il politico è responsabilizzato quale garante, quale espressione della volontà del popolo, espressione, per dirla con la filosofia tedesca, dello spirito del popolo (Volkgheist), a fondamento e giustificazione della concezione di Stato non solo come Stato-apparato, ma, prima ancora e soprattutto, come Stato-comunità, ossia come comunità aggregata per la realizzazione di interessi generali e di comuni valori etici. Sul piano politico, allora, la responsabilità si traduce quale regola di gestione delle vite dei cittadini, in termini di scelte di politiche del lavoro, di politica criminale (ad esempio sulla conformazione della prescrizione dei reati, l’introduzione di nuovi delitti e contravvenzioni e la modifica del 2005 in tema di recidiva) e di politica processuale (la modifica della struttura del processo civile di cognizione, l’inserimento, nel processo di esecuzione, dell’ipotesi della vendita diretta, l’introduzione di nuovi riti speciali, come la sospensione del procedimento con messa alla prova, l’introduzione di requisiti di specificità maggiormente stringenti quanto ai motivi dell’appello penale ex art. 581 c.p.p.). Centrale è, ancora, la responsabilità nella politica economica, con particolare riferimento alle scelte di gestione del denaro pubblico, la cui cattiva scelta gestionale può comportare una forma di danno erariale, con conseguente intervento sanzionatorio degli organi di giustizia contabile. Sotto il profilo più strettamente economico, la regola di responsabilità rappresenta la norma di comportamento fondamentale su cui si è fondata tutta la normativa economico-contabile, sia a livello statutale che locale che a livello europeo (cfr. su tutte le normative intervenute, la l. n. 559/1993, che ha segnato la soppressione delle gestioni fuori bilancio nell’ambito delle amministrazioni dello Stato). A una primaria funzione responsabilizzante, in chiave di previsione e di delineamento delle linee strategiche tanto dell’azienda privata quanto dell’ente pubblico, assolve il bilancio, nonché, ex post, il rendiconto, unitamente, almeno con riferimento alla gestione economica degli enti locali, a una serie di documenti, tra cui il documento unico di programmazione (DUP), che rappresentano le linee guida ed operative dell’ente. Così, gli amministratori, nel momento in cui propongono l’inserimento di una voce di entrata o di spesa nel bilanci, e l’assemblea (con riferimento alle società di diritto privato) o il Consiglio (con riferimento a Stato, Regioni, Province e Comuni), assumono una grande responsabilità, quali garanti del buon andamento dei conti pubblici, unitamente ai sindaci e agli organi di revisione, nonché alla figura del segretario comunale, garante della legalità negli enti locali e di norma responsabile anticorruzione, ai sensi della l. 190/2012. Poichè è necessario rispondere all’interrogativo “quis custodet custodes?”, su tale quadro interviene il sistema dei controlli interni (art. 147 e ss. d.lgs. n. 267/2000) ed esterni (il controllo, principalmente, della Corte dei Conti) – si introduce allora qui il tema delle posizioni di garanzie, quali forme di garanzia dell’adempimento dei doveri di responsabilità (cfr. anche art. 40 comma 2 c.p.), su cui si tornerà a breve -. Appare d’uopo osservare, per quanto detto, come anche le regole economiche rispondano in primo luogo al tema della responsabilità, essendo infatti previste dure sanzioni (art. 2392 c.c., art. 2409 c.c., art. 141 comma 1 lett. c) d.lgs. n. 267/2000, art. 148 comma 4 d.lgs. 267/2000), in caso di inadempimento a tale dovere etico e giuridico al tempo stesso, oltre che di vero e propria obbligazione (Bianca, La responsabilità). La tematica della spendita di denaro pubblico, in definitiva il denaro versato dai cittadini, prevalentemente tramite le imposte, si riconnette, in chiave di responsabilità del potere di sua spesa e gestione, al tema non solo dei debiti fuori bilancio, ma altresì a quello dell’equità intergenerazionale, principio di natura sovranazionale richiamato anche negli allegati al d.lgs. 118/2011, che si traduce in una forma di giustizia equitativa e sociale volta a garantire alle future generazioni dei servizi e un ambiente, inteso come ecosistema ma non solo, pari o migliore a quello che abbiamo trovato noi (il tema peraltro presenta a sua volte inferenze col principio europeo “chi inquina paga”, a sua volta espressione di responsabilità, cfr. per ulteriori spunti di riflessione Ad. Plen. n. 3/2021). Certamente, però, il terreno per così dire privilegiato della responsabilità in senso tecnico quale formante obbligatorio e norma primaria di comportamento, è quello giuridico, con particolare inferenza, ancora una volta, all’etica e a quei doveri morali e sociali a fondamento dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), ma, tutto sommato e in definitiva, anche dell’obbligazione civile, secondo una concezione estensiva dell’obbligazione, nel suo significato di vincolo sì giuridico ma giuridico in senso lato e non in senso stretto – in tal senso allora il dovere morale, inteso quale forma etica sul piano individuale ed interno, e il dovere sociale, quale forma etica sul piano collettivo ed esterno, finirebbero per colorare di significato l’intera categoria funzionale dell’obbligazione (cfr. peraltro il complesso tema, correlato, della coercibilità dell’obbligazione naturale) -. In tal senso, l’etica diventa diritto, e viceversa, e la responsabilità, intesa come rapporto relazionale tra il singolo e gli altri consociati e, prima ancora, tra il singolo e l’intero ordinamento (concezione pubblicistica dell’obbligazione), si traduce come autoresponsabilità, ossia come relazione obbligatoria del singolo con se stesso, nozione evocante quella kantiana di legge morale che ha messo in un certo senso in crisi il dogma stesso della dualità dell’obbligazione. L’autoresponsabilità, allora, trova sì fondamento, come si è detto tradizionalmente, nel precetto di cui all’art. 1227 c.c. (da leggersi in combinato disposto con gli artt. 1176 c.c. e 1218 c.c.), ma evoca altresì un precetto ben più ampio, lo stesso accennato nella categoria dei concetti giuridici indeterminati e più ancora in norme dal pregnante contenuto etico, come quelle di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione, espressioni di altrettanti principi su cui si è spesa illustre letteratura giuridica. La Costituzione reca peraltro indubbie norme fonti di responsabilità e di posizioni di garanzia, come l’art. 28, in tema di responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, l’art. 81 comma 2, sul carattere eccezionale e comunque tassativo del ricorso all’indebitamento, e gli artt. 97 comma 1 e 98 comma 1, con specifico riferimento alla pubblica amministrazione. La responsabilità si presenta allora quale principio trasversale ai singoli rami dell’ordinamento giuridico, e come tale non “spacchettabile”, né considerabile in modo frammentario e settoriale. Così, nel diritto amministrativo essa richiama il tema, primariamente, della responsabilità della pubblica amministrazione, sulla cui natura, se contrattuale o extracontrattuale, da tempo si discute. Nel diritto tributario la primaria norma di responsabilizzazione dei contribuenti si rintraccia agevolmente nell’art. 53 comma 1 Cost., secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, cui fanno da contraltare le norme antielusive (art. 10 bis l. 212/2000, art 37 bis dpr 600/1973) e le disposizioni di carattere penale (d.lgs. n. 74/2000). Nel diritto penale, poi, la responsabilità trova la propria consacrazione nella sua forma più alta, risolvendosi il giudizio penale in una forma di responsabilità tra il singolo e l’intero ordinamento, ove l’imputato è chiamato a dare conto delle proprie azioni avanti a un giudice, che, in forma monocratica o collegiale, è espressione della comunità (ossia dello Stato – comunità) lesa dalla condotta antigiuridica e offensiva. Ecco allora l’inferenza con la tematica delle posizioni di garanzia e con quella del bene giuridico. L’art. 40 comma 2 c.p., infatti, non solo fonda, come si è tradizionalmente rilevato, la categoria funzionale delle posizioni di garanzia, ossia di quelle norme, scritte o non, che attribuiscono una posizione di tutore della legalità, non solo astratta ma anche concreta, a determinate persone. La predetta disposizione, infatti, rappresenta il fondamento causale della teoria del bene giuridico, da più voci, in dottrina e in giurisprudenza, contestata, perché, si è detto, deriverebbe da un ordinamento, quello tedesco, distinto dal nostro, e poi stante il suo carattere indefinito, difficilmente compatibile con il principio di legalità ex art. 25 Cost. A tali obiezioni è infatti possibile agevolmente replicare facendo constare come il precetto, non solo strettamente giuridico ma anche etico, di cui all’art. 40 comma 2 c.p., faccia intravedere un mondo di valori e di principi, un universo metafisico parallelo ed ulteriore a quello delle disposizioni di legge, insomma, che non può essere trascurato e dato tamquam non esset. Questo universo metafisico è allora governato in primo luogo dai principi di Bene, Giustizia, Equità e Protezione, come già ben accennato nella filosofia di Platone. La responsabilità allora si traduce in fonte di protezione e di tutele e, in una visione circolare, rappresenta l’alfa e l’omega dell’ordinamento. La responsabilità, come detto all’inizio, deve essere fonte allora di scelte effettive, efficaci e concrete, nonché rispondenti a una reale sostanza non trincerabile dietro la mera forma. Tale aspetto merita approfondimento. Infatti, tanto nella realtà amministrativa quanto etica, politica ed economica, oltre che sul piano della simulazione giuridica e dell’elusione, ricorrono comportamenti a vario titolo truffaldini e comunque contrari a giustizia, che si caratterizzano per una parvenza di legalità, che tale è però solo da un punto di vista meramente formale, risultando invece le predette condotte prive di reale sostanza meritevole di tutela. I riferimenti sono alle categorie dell’interposizione fittizia di persona, alla simulazione soggettiva ed oggettiva, all’elusione fiscale, ma anche alle false attestazioni in bilancio, alla configurazione come voce di bilancio di un quid che invece ricadrebbe sotto altra voce, alle varie forme fenomenologiche della corruzione, della truffa e della frode in pubbliche forniture, oltre che della frode in commercio (art. 515 c.p.) e del reato di cui all’art. 642 c.p. (fraudolento danneggiamento di beni assicurati e mutilazione della propria persona). I frequenti fatti di cronaca, nazionali e internazionali, che danno conto delle continue violazioni della responsabilità e dell’autoresponsabilità, intese quali precetti etici e non solo giuridici, sia in via frontale che con meccanismi simulatori e fraudolenti più articolati, devono far riflettere. Se il concetto di responsabilità si riconnette, sul piano teologico e filosofico, a quello di bene, la corruzione, la simulazione e la frode si riconnettono a quello di male, male inteso non solo, nell’accezione comune, come l’uccisione o il ferimento di una persona, ma anche, nell’accezione biblica e fatta propria dalla teologia cristiana, come lesione diretta o indiretta della sfera altrui, anche in termini di mero approfittarsi dell’altro. Ecco allora che il romanistico e universale principio del “neminem laedere” si colora di significati ulteriori, fino a ricomprendere forme di lesioni non direttamente percettibili e che pure feriscono e sono dimostrazioni, sebbene in senso lato, di malvagità. Sotto tale profilo, allora, la lesione, sul piano penale, del bene giuridico, presenta sempre una duplice dimensione, individuale e collettiva, poiché accanto alla singola persona uccisa, truffata, depredata, ingannata o vittima di corruzione, vi è la lesione del legame di fiducia con lo Stato, quale comunità di consociati vincolati a reciproche forme di tutela e responsabilità. In tal senso, anche sul piano economico e amministrativo, atteggiamenti irresponsabili come il fare politica economica a debito oltrepassando la ragionevolezza del limite, imposto da norme di bilancio nazionali e sovranazionali e non solo, oppure l’affidare direttamente un appalto senza motivazione rafforzata, giovandosi delle norme del nuovo codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) che maggiormente concedono la forma dell’affidamento diretto rispetto al precedente d.lgs. n. 50/2016, devono essere censurati duramente e risolutamente. Il fatto poi che la violazione della norma di responsabilità sembri diventare un fenomeno su scala europea (il caso Qatargate e il caso che ha interessato la Germania, con l’accusa per il cancelliere Scholz di aver esposto dati non veritieri sui conti pubblici tedeschi) e internazionale (le inchieste che hanno riguardato i due candidati alla Casa Bianca, Trump e Biden) deve certamente destare l’opinione pubblica e del mondo intellettuale, per attivare un doveroso ripristino dell’Etica e della Politica con la “E” e la “P” maiuscole. In definitiva, la responsabilità, principio di verità dal multiforme aspetto, al pari di Iride dalle multiformi facce (Platone) funge da regola guida delle condotte umane, prescrizione sulla conformazione di queste al giusto e all’equo e fonte di tutela e, al tempo stesso, sanzione in caso di sua violazione, in caso, per dirla con Busnelli, di inadempimento dell’obbligazione primaria e fondamentale tra i membri dello Stato.

Gustavo Cioppa

Fonte: https://www.osservatorio.milano.it/post/responsabilita